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La giustizia è amministrata in nome del popolo o di Bruno Contrada?

22 Ottobre 2017

Sono state di recente depositate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul caso Contrada: l’ex agente segreto italiano, condannato in via definitiva a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, non è ora più soggetto ad alcun effetto penale della sentenza che lo vedeva imputato. La sentenza era già definitiva, confermata dalla Cassazione; eppure ora non c’è più, svuotata di ogni significato in quanto… smentita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La CEDU, infatti, nel 2015 ha esaminato il ricorso presentato dall’imputato contro la decisione italiana: ha deciso che, a prescindere dal fatto storico contestato, ossia che Contrada avesse favorito o meno i gruppi criminali siciliani, la condanna penale era illegittima in quanto fondata su una norma incriminatrice non conoscibile dall’imputato. Ma come? Che vuol dire “non conoscibile”? La norma c’era o non c’era? La Corte EDU dice forse che i giudici nazionali avrebbero condannato Contrada e confermato in più sedi tale giudizio…in assenza di una norma giuridica che lo fondasse?

La questione non è di poco conto, quasi offensiva per un giudice italiano. È certo, infatti, che i giudici interni sono soggetti solo alla legge e amministrano la giustizia in nome del popolo; sono, insomma, espressione dell’articolo 101 della Costituzione. Non altrettanto, invece, si può dire della Corte EDU, con il che è difficile accettare da questa una ramanzina simile. Attenzione, la Corte di Cassazione l’aveva confermata, quella condanna; e la Cassazione, si sa, è preposta all'”esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni” (art. 65, Legge fondamentale sull’ordinamento giudiziario); mica pizza e fichi, insomma.

In effetti, dinanzi alla Corte EDU si è palesato un altro diritto oggettivo, il diritto della Convenzione EDU, sottoscritta nel 1950 e ratificata anche dall’Italia – che così ne ha accettato l’implementazione nel proprio ordinamento. Per così dire, si tratta di una fonte a metà tra il dentro e il fuori del diritto oggettivo nazionale – in quanto comunque subordinata alla Costituzione. Poco male, se ad amministrarne la normatività fosse un corpus univoco di giudici, tutti paritariamente legittimati dalla Costituzione. Il problema è che alla Convenzione EDU fa capo un organo giurisdizionale autonomo, la Corte EDU per l’appunto, che ne è ultimo (unico?) e insindacabile interprete, e le cui pronunzie – dice la Convenzione – devono essere eseguite nell’ordinamento interno senza margini di discrezionalità. Salva Costituzione, s’intende, anche se la Convenzione non lo dice.

Ebbene, la Costituzione è tutto: è la norma di riconoscimento dell’ordinamento, l’alpha e l’omega di ogni regola. Essa, per ciò stesso, pone il principio di certezza del diritto, con il corollario logico per cui le sentenze, una volta passate in giudicato, sono definitive e non si toccano più; persegue questo scopo confinando ogni processo al giudizio della Corte di Cassazione; inoltre, e soprattutto, nel delineare la tavola di valori, la Costituzione pone l’imprescindibile esigenza di contemperare i diritti dell’imputato – fondamentali – con l’interesse della comunità a difendersi dal crimine. Questa sentenza non aiuta a compiere questo bilanciamento, nel momento in cui priva di effetti penali una condanna a dieci anni di reclusione – già tutti scontati, peraltro – per la semplice esigenza di conformarsi all’ordine di un’autorità estera. Bruno Contrada fu o non fu un fiancheggiatore di Cosa Nostra? Boh.

Il garantismo, valore sacrosanto, cui si ispira anche la costruzione europea e, nello specifico, la Convenzione, non può essere  il rispetto delle decisioni assolutorie della Corte EDU, solo perché assolutorie; esso è bensì il rispetto della Costituzione nella sua complessità democratica, nel reciproco intrecciarsi di valori e principi, diritti e interessi; nell’autoritativo imporsi di decisioni fondate sulla legge democratica. Ogni riduzionismo sarebbe facilmente spendibile sui media ma si tradurrebbe, è inevitabile, in una lesione costituzionale. Fa specie dunque leggere nella motivazione della Suprema Corte passaggi così apodittici: “La norma che impone che le decisioni di condanna intervengano sulla base di precetti astrattamente conoscibili e prevedibili  [norma ritenuta violata dalla CEDU nel caso di specie, con motivazioni però molto contestate dai giuristi e, in primis, da tutti quei giudici che avevano ritenuto la responsabilità di Contrada] (…) è dunque caratterizzata da una matrice intrinsecamente garantista”. Ne segue che “così inquadrata la violazione dell’art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte EDU – non può rilevare in questa sede se a torto o a ragione – nella vicenda giurisdizionale che ha coinvolto il ricorrente, il Collegio osserva che non può comunque essere eluso l’obbligo di conformarsi a detta decisione”.

Punto. La Corte ingenuamente identifica il garantismo con l’intervento di una pronuncia – di quale giudice? legittimato da chi o cosa? amministrando quali norme? – sol perché favorevole all’imputato. L’imputato, sotto questo punto di vista, potrebbe aver fatto le cose più indicibili ma nella misura in cui un giudice ritenesse che non poteva conoscere la norma che vietava quelle cose allora tanto meglio per lui: sarà assolto e sarà giusto così, vorrà dire che il giudice è stato molto garantista. Semplice, no?

Quel che stranisce non è il principio in sé quanto che la Corte Suprema si esime del tutto dal chiedersi se la CEDU abbia nel caso concreto torto o ragione; si limita a dire: “obbedisco”. Tuttavia, un simile rapporto tra le due autorità giurisdizionali, anziché l’unità del diritto finisce per instaurare…”un diritto per ogni Contrada” – con buona pace di ogni razionalità nell’applicazione della legge.

Il “Palazzaccio” romano della Cassazione consegna, dunque, le armi a quell’obbrobrio senz’anima, senza forma della Corte EDU; nulla obietta quanto alle proprie prerogative, ossia quanto alle prerogative di un intero ordinamento con le sue norme e le sue insindacabili pronunce giudiziarie chiamate e dichiararne la violazione. Che il profilo normativo e criminologico del concorso esterno in associazione mafiosa sia quanto mai controverso è indubbio; altrettanto indubbio è, però, che pronunce così, tagliando con l’accetta le questioni delicatissime inerenti alla repressione del crimine organizzato, aggravano il problema.

Nessun giurista di ispirazione costituzionale vuole mai, a priori, sbattere in galera qualcuno o infliggergli il marchio indelebile del reo; ma tutti i giuristi di ispirazione costituzionale vogliono che la Costituzione non sia usurpata da autorità estere protagoniste di un vero e proprio colonialismo giudiziario.

Assistiamo all’agire di forze che svellono alla radice ogni sovranità politica e, così, ogni sovranità giuridica, del diritto. La sovranità del diritto è surrogata dalla sovranità di singoli giudici che si legittimano molto di più per gli interessi (di politica del diritto e non solo) da loro perseguiti che, invece, per le norme che amministrano o da cui sarebbero riconosciuti. Un ritorno dal governo delle leggi al governo degli uomini, dunque, che manda a monte i meccanismi istituzionali propri alle nostre forme di stato, superate fatalmente dagli eventi. Non è difficile comprendere, così, perché le classi politiche nazionali boccheggino: gli hanno sfilato di mano il controllo sugli ordinamenti giuridici; quale altro fondamento potrebbe legittimarle?

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