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La “France Insoumise” di fronte al suo destino

11 Dicembre 2017

Dopo poco più di un anno di esistenza ed una storia già ricca, La France Insoumise, forte del risultato del suo candidato Jean-Luc Mélenchon all’elezione presidenziale e della visibilità del proprio gruppo parlamentare, deve ora definire la sua strategia nella guerra di posizione che si apre. Molte sono le sfide che il movimento dovrà affrontare.   

Siamo appena reduci da un lungo ciclo elettorale e, oltre La République en Marche, il movimento La France Insoumise (LFI) si è imposto quale forza nuova imprescindibile sullo scacchiere politico. Mentre solo pochi mesi prima sembrava che sarebbe stato il Front National (FN) a dotarsi di una forte presenza nel Parlamento Francese, la visibilità del gruppo di LFI ha permesso al movimento di insediarsi nella mente dei francesi quale principale oppositore alla politica di Emmanuel Macron. Questo risultato è in gran parte il frutto di una strategia populista, così come è stata teorizzata da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, e messa in pratica da Podemos, ma anche dell’esplosione del PS. Questo progresso è notevole dato che permette all’antiliberismo progressista di uscire dalla cultura della sconfitta. Gli insoumis hanno sostenuto una vera guerra di movimento, hanno ridato tutto il suo senso alla funzione tribunizia attraverso Jean-luc Mélenchon, ed hanno fallito di poco il passaggio al secondo turno dell’elezione presidenziale. Dopo una fase parlamentare agitata che si è protratta per qualchi mesi, è necessario effettuare un piccolo bilancio di quanto è successo, e tratteggiare le sfide che il movimento dovrà affrontare, ora che si profila una nuova fase per cui è necessaria una strategia di guerra di posizione.[1]

La strategia populista vittoriosa sulla retorica di sinistra 

Uno dei primi insegnamenti che si possono trarre da questa elezione presidenziale è che essa ha permesso di far apparire nettamente due orientamenti strategici. Il primo è il populismo, inteso come una maniera di costruire un soggetto politico collettivo articolando un insieme di richieste sociali ed erigendo steccati nei punti in cui essi sono più efficaci, allo scopo di determinare un « loro » ed un « noi ». Qui «quelli del basso, la Francia dei piccoli», là «quelli dell’alto». Questa strategia ha reso necessaria la costruzione di nuovi referenti più trasversali e la liquidazione dell’insieme dei referenti tradizionali della sinistra, che, in quanto significanti discreditati dalla politica di François Hollande, erano diventati politicamente delle palle al piede. La strategia populista non nega la pertinenza analitica dello steccato sinistra-destra, come si sente spesso dire, ma rifiuta il suo uso retorico, nei discorsi e nella pratica politica.

Questa strategia si è opposta ad un’altra strategia poggiante sulla retorica di sinistra e la costituzione di un cartello di forze che si riconoscano chiaramente di sinistra. Quest’ultima è stata sostenuta da Benoît Hamon, candidato identitario del «ritorno ai fondamenti della sinistra», e dal PCF che proponeva, prima della campagna, la costituzione di un largo cartello di sinistra. I risultati dei vari candidati e la dinamica della campagna hanno troncato questo dibattito.

Occorre ricordare in effetti che la campagna di LFI è diventata pienamente populista soltanto a partire dal meeting del 18 marzo a piazza della République a Parigi. Prima, si trattava di una strategia ibrida – molto «homo urbanus», il nuovo soggetto politico concettualizzato da Jean-Luc Mélenchon nel suo libro L’ère du peuple –, centrata sul cuore elettorale della sinistra e le classi medie. Il meeting del 18 marzo, le bandiere francesi ed il contenuto storico e patriottico del discorso, hanno permesso al movimento di divenire più trasversale e di passare dall’incarnazione della sinistra all’incarnazione del popolo. È proprio a partire da quel momento che Jean-Luc Mélenchon guadagna punti nei sondaggi e mette in moto la sua dinamica, amplificata due giorni dopo dalla sua eccellente prestazione nel dibattito con i  «grossi candidati». Nel corso di tale dibattito, il tribuno riesce a scollarsi di dosso l’immagine collerica che lo caratterizzava a vantaggio di un’immagine più positiva e sorridente, il che gli permette di indossare gli abiti di uomo di Stato. In pochi giorni, il candidato passa dall’11% al 15% e supera Benoît Hamon, che comincia allora a franare, prima di spofondare a seguito del tradimento di Valls. Questo sorpasso ha anche permesso a LFI di innescare il fenomeno del voto utile molto presente nell’elettorato del PS, anche se bisogna pur riconoscere che in molti si sono orientati per Macron. È anche a partire da questo momento populista che le intenzioni di voto per il FN si contraggono.

Si ribatte spesso al metodo populista che l’elettorato di LFI si autoposiziona maggioritariamente a sinistra e che la retorica populista è molto meno trasverale di quanto lascia credere. Questa constatazione è vera, ma è statica e deve essere sfumata. Se è maggioritariamente vera, non lo è esclusivamente. L’indagine post-elettorale IPSOS permette di apprendere che Jean-Luc Mélenchon è il candidato che ha attratto il più gran numero di votanti che non si riconoscono «in nessun partito», davanti a Marine Le Pen ed Emmanuel Macron. D’altronde, in una prospettiva dinamica, occorre prendere in considerazione in conto due dimensioni che sono collegate: la capacità di essere la seconda scelta di numerosi elettori e la capacità di aggregare voti al secondo turno, che è il momento in cui la trasversalità si esprime in maniera più netta.

Nella fattispecie, secondo l’indagine CEVIPOF del 16-17 aprile 2017, Jean-Luc Mélenchon è riuscito ad essere la prima seconda scelta degli elettori non definitivi di tre differenti candidati: Emmanuel Macron (26% dei suoi elettori non definitivi), Benoît Hamon (50%) e Marine Le Pen (28%). Inoltre, se ci si vuole interessare alla capacità di aggregazione al secondo turno, e secondo i dati raccolti dall’autore di queste righe, i candidati di LFI presenti al secondo turno delle legislative sono stati capaci di raccogliere grossi bottini al ballottaggio, senza tuttavia arginare totalmente l’onda macronista. In effetti, questi candidati, perlopiù opposti a candidati della République en Marche, hanno guadagnato in media 29,11 punti tra il primo ed il secondo turno, contro i 18,46 punti dei  candidati di LREM che erano loro opposti. Questo non si può unicamente spiegare con la rimobilitazione dell’elettorato LFI se si considerano il decremento del tasso di partecipazione nazionale ed il numero di duelli – oltre sessanta -, anche se ciò ha potuto influire in sede locale. Ecco cos’è la trasversalità che permette il metodo populista: la capacità di essere una forza di secondo turno e di non essere invischiati in un ghetto elettorale.  

Il risultato ottenuto da Jean-Luc Mélenchon il 23 aprile, ossia il 19,58% corrispondente a sette milioni di voti, era in sé una vittoria politica incoraggiante per il futuro. Peccato che il candidato non abbia potuto mostrarlo ed incarnarlo al momento della sua conferenza stampa, anche se non ci vuole molto per capire che sfiorare così da vicino l’accesso al secondo turno possa essere demoralizzante. Tuttavia, è a partire da quel momento che i  media e gli avversari politici di LFI hanno tentato di confinare il movimento nel ruolo di una forza inacidita opposta all’energia positiva macroniana e, bisogna dirlo, ci sono parzialmente riusciti. L’intoppo sull’affare Cazeneuve – uno dei rari ministri di Hollande relativemente popolari – e della frase pronunciata da Jean-Luc Mélenchon sull’«assassinio di Rémi Fraisse» hanno ulteriormente amplificato questa situazione. Tuttavia, i risultati delle elezioni legislative, e l’esistenza di un gruppo parlamentare autonomo, sorridente e vincente, sono riusciti a smantellare questa spirale che minacciava gli insoumis. Ora, si chiude un ciclo e molte sfide attendono il movimento.

Oltrepassare la retorica di opposizione, coniugare il momento destituente e il momento istituente

Il primo mese di attività parlamentare degli insoumis è stato segnato da momenti mediatici che hanno messo in scena una retorica di opposizione: rifiuto della cravatta, rifiuto di recarsi a Versailles, etc. Se si capisce senza difficoltà che sia opportuno arrogarsi il monopolio dell’opposizione in un contesto in cui i Républicains sono completamente logorati dalle loro divisioni interne e dove il FN è invisibile e subisce il contraccolpo della catastrofica campagna del secondo turno, questa retorica deve tuttavia essere superata, o almeno coniugata con una retorica istituente. Questa esigenza di cambiar disco è tanto più pressante che il momento politico è segnato dalla stanchezza nei confronti della politica dopo un lungo ciclo elettorale. La retorica di opposizione, a freddo, quando non ci sono movimenti sociali di grande ampiezza e si subisce la depoliticizzazione post-presidenziale, rischia di girare a vuoto.

Per retorica istituente, intendiamo la capacità di incarnare e sviluppare discorsi che dimostrino una capacità di produrre un ordine alternativo all’ordine attuale, un orizzonte positivo, dove sia questione, secondo le parole particolarmente calzanti di Jean-luc Mélenchon alla fine di uno dei dibattiti della campagna presidenziale, di «ritrovare il gusto della felicità». La France Insoumise non deve accontentarsi di contestare il nuovo ordine macroniano. Deve porsi a metà strada tra tale ordine che critica, che propone di sgomberare, ed il progetto di paese che vuole veder nascere. Colpisce la differenza degli slogan tra i  meeting di Podemos e quelli de La France Insoumise: mentre nei primi si canta ¡Sí se puede!, nei  secondi si scandisce Résistance! e Dégagez! Il cambiamento qualitativo da mettere in atto è fondamentale e passa attraverso una trasformazione della cultura militante. Diciamolo chiaramente: la sinistra antiliberista francese ha interiorizzato la sconfitta e non pensa se stessa se non come un’eterna oppositrice che resiste indefinitamente agli assalti del neoliberismo. Questa posizione è confortevole ed è talvolta il risultato del narcisismo militante che si compiace nel ruolo trasgressore dell’oppositore. Di contro, risulta notevole che Íñigo Errejon, l’ex numero 2 di Podemos, dichiari, la sera di un contraccolpo elettorale: «Non siamo quelli che resistono» e «Siamo la Spagna che viene». La France Insoumise, se non vuole essere confinata al ruolo dell’eterno oppositore, dovrà lavorare alla trasformazione della cultura della sua base militante, che proviene molto spesso – ma non soltanto – dalla vecchia sinistra radicale. Questa trasformazione è già in corso, in particolare con la benvenuta messa in ripostiglio delle bandiere rosse. Adesso si tratta di approfondirla.

Senza questa capacità di cambiamento dei militanti rispetto alla loro cultura politica originaria e senza questa capacità di articolazione tra la volontà di destituzione del vecchio mondo e la volontà di instituzione di un nuovo mondo, lo spazio politico potrebbe essere lasciato a Benoît Hamon. Quest’ultimo cerca di occupare lo spazio dell’antiliberismo credibile, che si proietta in un «futuro desirabile». Questo lavoro è la condizione per andare a cercare quelli che mancano, in particolare tra le classi medie urbane e diplomate che hanno votato per il candidato del PS o per Macron alle presidenziali, ma anche tra le  classi popolari dove la richiesta di autorità e di ordine è potente.

La difficile ma necessaria sintesi politica tra classi popolari della Francia periferica e classi medie urbane

La forza de La France Insoumise è di aver progredito enormemente nel complesso delle categorie socio-professionali (CSP) e delle fasce di età – tranne le più avanzate – rispetto al 2012. Questa progressione è del tutto omogenea se si considerano i dati per CSP: 19% tra i  quadri, dieci in più rispetto al 2012, 24% tra gli operai, ossia un progresso di tredici punti, 22% e un guadagno di dieci punti tra gli  impiegati, 22% nelle professioni intermedie e otto punti di progressione, ma nessuna avanzata tra i pensionati. È d’altronde importante notare che l’elettorato di Jean-Luc Mélenchon si è considerevolemento ringiovanito: 30% tra i 18-24 anni (+22), 24% tra i 25-34 anni (+11), 22% tra i 35-49 anni (+10), ma ancora una volta esiti fiacchi nelle fasce di età più avanzate. Questa struttura dell’elettorato costituisce una forza ed una debolezza: dimostra la capacità de La France Insoumise di convincere chi  vota per la prima volta e di estendersi verso tutte le CSP, ma espone all’astensione differenziale, più particolarmente al fatto che i più anziani votano molto di più del resto della popolazione. Gli steccati politici diventano anche steccati generazionali.  

Si può constatare l’omogeneità della progressione di Jean-Luc Mélenchon anche a livello territoriale. Si osserva una progressione importante sull’insieme del territorio, eccetto l’Area della Sarthe, la zona di Orléans, l’ex regione Champagne, la Vandea, la Corsica, e la Franche-Comté che è più moderata.

Mappa delle progressioni elettorali di Jean-Luc Mélenchon tra il 2012 e il 2017

 

La capacità di avanzamento nella maggior parte degli strati della popolazione è un’ulteriore prova della trasversalità acquisita dal movimento nel corso della campagna presidenziale. Malgrado soggettività politiche lontane come possono essere quella di un quadro cittadino e quella di un operaio del Nord, Jean-Luc Mélenchon ha saputo cristallizzare, incarnare e articolare domande politiche diverse.  

Si pone, allora, il problema di sapere come continuare a progredire nell’insieme delle categorie più disponibili a votare LFI. Si tratta di sapere, più precisamente, come convincere le classi medie urbane che hanno esitato tra Macron e Mélenchon – e sono numerose – e le  classi popolari – operai, impiegati e funzionari di categoria C della Funzione Pubblica Ospedaliera e della Funzione Pubblica Territoriale – che sono tentate dal voto FN, ma che, per effetto della crisi che vive attualmente il Front National, possono essere politicamente disaffiliate. Questa possibilità di disaffiliazione è tanto più concreta che il FN è tentato da un ritorno al trittico «identità, sicurezza, immigrazione», e dall’abbandono della verniciatura sociale auspicata da Philippot a vantaggio di un discorso liberista in grado di conquistare le borghesia conservatrice. Nel momento in cui la temporalità politica dell’oggi è segnata dal progetto di Macron sul codice del lavoro e sull’austerità del budget, il FN è invisibile e LFI dispone quindi di un varco di opportunità reale per raggiungere questi strati popolari.

La difficoltà risiede nel fatto che le classi medie urbane e le classi popolari della Francia periferica esprimono richieste politiche potenziamente antagoniste: apertura al mondo, partecipazione alla vita socio-politica, tempo libero, ecologia o istruzione per quanto riguarda le prime; protezione, autorità, valorizzazione del lavoro, relativa ostilità all’immigrazione e richiesta di intervento dello Stato per le seconde. Si tratta, ben inteso, di un quadro a grandi linee, ma invitiamo i nostri lettori ad andare a consultare l’ultimo dossier sulle fratture francesi realizzato dall’IPSOS.

Ci sembra che questa contraddizione può essere superata sviluppando un discorso progressista sulla patria che non si configuri come un discorso di chiusura e di ripiego, ma come un discorso ad un tempo inclusivo e protettore: «La Francia è una comunità solidale; la patria è la protezione dei più deboli grazie alla mediazione dello Stato; la Francia sono i servizi pubblici; la Francia è una nazione universale ed ecologica aperta al mondo; etc. ». Questo tipo di discorso è stato sviluppato da Jean-Luc Mélenchon durante la campagna presidenziale, ma deve essere approfondito e investito simbolicamente conferendogli un contenuto positivo e ottimista. LFI deve articolare un discorso olistico, produrre un ordine patriottico alternativo, che consenta la cristallizzazione di queste richieste potenzialmente contraddittorie. Si tratta di produrre una trascendenza ed un orizzonte aperto e protettore allo stesso tempo, dove la nozione di servizio pubblico torni ad essere fondamentale, conferendo al contempo un ruolo centrale al ristabilimento dell’autorità dello Stato, per rispondere al sentimento “declinista” per cui «tutto va in malora». Quest’ultimo è molto diffuso tra gli operai, gli impiegati e i funzionari di categoria C che subiscono l’austerità e vedono sfaldarsi progressivamente lo Stato nei territori periferici.

Nondimeno, attribuirsi il monopolio di una visione protettrice, aperta ed inclusiva della nazione non è la sola scommessa saliente nella guerra di posizione che si preannuncia. È fin troppo evidente che molti francesi hanno difficoltà a prospettare un governo de La France Insoumise. Di conseguenza, votare per Jean-Luc Mélenchon può reppresentare una specie di salto nel buio. È per questa ragione che il movimento si trova di fronte alla sfida di rendersi credibile su vari livelli: la natura del personale politico, la pratica istituzionale così come i codici e il simbolismo della competenza.

Dotarsi di una capacità di governare e di una credibilità  

Malgrado i risultati catastrofici delle politiche economiche che sono messe in opera da trent’anni, il personale politico neoliberista riesce sempre a mantenere la sua apparenza di credibilità tecnica ed economica. Pensiamo alle sempiterne «politiche di incentivi» ritenute capaci di far diminuire la disoccupazione, mentre si tratta di una spesa costosa con pochi effetti sull’occupazione… Eppure, questa illusione di credibilità è alla base della capacità delle élite di ottenere la propria riconferma nel tempo, dato che ciò che convince molti elettori a votare per loro è la scelta del «male minore», mentre i  «margini politici» sono reppresentati come assimilabili al salto nel buio. Questa illusione di credibilità poggia su un complesso di codici e di discorsi che bisogna saper dominare. La France Insoumise non deve ignorare questa sfida centrale se vuole convincere una parte di quelli che esitano a darle il voto. Una frazione del suo personale politico deve quindi tecnocraticizzarsi senza per questo depoliticizzarsi. Le facoltà di Sociologia, di Storia e di Scienze Politiche sono sufficientemente rappresentate in seno al personale politico che gravita intorno a LFI, mentre esiste una carenza vistosa di profili provenienti da Legge, Economia e dall’alta amministrazione. Ciò detto, è anche nella pratica istituzionale quotidiana, nell’amministrazione della vita di tutti i giorni, che risiede la chiave della capacità di rappresentare la normalità.  

A questo proposito, le  elezioni intermedie saranno essenziali. La prossima scadenza importante non è il 2022, ma il 2020, anno delle elezioni municipali. I risultati di LFI nelle  grandi città al primo turno dell’elezione presidenziale del 2017 le lasciano molte speranze di conquistare vari comuni, come mostra il seguente grafico :

I risultati dei vari candidati nelle grandi città. Fonte : Metropolis.

 

La conquista di municipalità importanti a livello nazionale è d’altronde centrale nella strategia di acquisire credibilità condotta da Podemos, come dimostrano le esperienze di Madrid e di Barcellona. Come spiega Íñigo Errejon in una sua conversazione con Le Vent Se Lève: «Può sembrare paradossale, ma la cosa più rivoluzionara, quando abbiamo conquistato queste città, è che non è successo niente». In altre parole, la loro vittoria non ha generato il caos, mentre questo era stato annunciato dai loro avversari politici. La dimostrazione della capacità di governare a livello locale è una tappa fondamentale per convincere della propia capacità di governare a livello nazionale. È anche l’occasione di produrre un personale politico dotato di una visibilità, e di una padronanza delle molle e dei vincoli delle politiche pubbliche, di quello che rappresenta il fatto di dirigere una istituzione con tutte le sue pesantezze amministrative, come chiarisce Rita Maestre in un’altra conversazione pubblicata su LVSL. Ciò richiede una strategia a lungo termine per conquistare questi bastioni essenziali nella guerra di posizione che si sta svolgendo, ma anche che LFI chiarisca e stabilizzi il suo modello organizzativo.  

Quale che sia la questione, non esiste una soluzione chiavi in mano, ma crediamo che ciò sia ancor più evidente per quanto concerne l’organizzazione stessa di LFI. È chiaro nondimeno che il movimento non può adottare le forme piramidali tradizionali dei vecchi partiti. L’esperienza storica ha dimostrato fin troppo bene la loro tendenza alla sclerosi e all’assenza di duttilità di fronte agli eventi politici. La sfida è di coniugare orizzontalità partecipativa e verticalità, produzione di quadri e limitazione dell’autonomizzazione dei quadri, permeabilità con i movimenti sociali ed istituzionalizzazione relativa; o ancora produzione di figure tribunizie e ancoraggio locale. Quale che sia il modello prescelto nel corso dei prossimi mesi, ci sembra che nessuna di queste sfide possa essere trascurata.

Le scommesse per La France Insoumise sono numerose, il passaggio da una strategia di guerra di movimento ad una strategia di guerra di posizione non è affatto evidente. Nondimeno, dopo anni di disfatte interminabili, le forze progressiste e antiliberiste possono finalmente coltivare la speranza di una presa di potere.

 

[1] La distinzione tra guerra di movimento e guerra di posizione proviene da Gramsci. Per semplificare, la guerra di movimento si rifà ai periodi politici caldi, quando i  rapporti di forze possono ribaltarsi spettacolarmente ed in grandi dimensioni. La seconda si rifà ai periodi più freddi, dove la sfida è quella della conquista dei bastioni nella società civile e nella società politica, dello sviluppo di una visione del mondo, e della costruzione di un’egemonia culturale capace di permettere la nascita di un nuovo blocco storico del cambiamento.

 

Pubblicato su Le Vent Se Lève il 23/8/2017. Traduzione di Jean-Pierre Floquet.

 

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