Cultura | Teoria

Populismo repubblicano: oltre la contrapposizione tra Stato e popolo

Abstract: Per comprendere più approfonditamente le esperienze populiste che si sono sviluppate in America Latina è necessario costruire un quadro teorico, in chiave populista e repubblicana, che abbandoni quel retaggio per cui si pensa al popolo come “l’altro” dello Stato, e permetta così di pensare un reciproco dialogo fra i due. A tal proposito sarà utile addentrarsi in alcuni dibattiti classici su populismo e socialismo e in altri, più recenti, fra populismo e autonomismo, al fine di ridefinire il ruolo dello Stato e delle istituzioni nel pensare l’emancipazione e l’autodeterminazione popolare. 

I. Le tensioni fra socialismo e populismo in America Latina hanno plasmato i principali dibattiti politici latinoamericani di sinistra degli anni ’80. Dopo la crisi del paradigma comunista degli anni ’60 e 70 (1), la sinistra latinoamericana si trovò di fronte alla necessità di ripensare in profondità il modo di comprendere la trasformazione sociale e il senso dell’emancipazione popolare. In molti casi questo ripensamento si tradusse nel tentativo di recuperare la migliore eredità della sinistra in chiave gramsciana e nella volontà di incorporarla in un progetto egemonico di carattere democratico. Potremmo dire che è all’interno del dibattito su egemonia e democrazia che nasce questa disputa fra socialismo e populismo. Entrambe le correnti concordano nel concepire l’egemonia come quella forma di organizzazione capace di costruire una volontà collettiva alternativa al blocco dominante, ossia, una proposta organizzata in seno al mondo plebeo per trasformare la natura stessa della forma-nazione. Se il blocco dominante si configurava nella forma di Stato-nazione, l’egemonia plebea si costituisce nella figura del nazional-popolare. E la costruzione del nazional-popolare si consoliderebbe mediante una coordinamento tra il popolo e gli intellettuali – in senso ampio – , legame che permetterebbe di distinguere le sedimentazioni conservatrici dalle possibilità trasformatrici proprie di ogni esperienza popolare. Tuttavia affinché questa trasformazione avesse luogo, era necessario definire la vera origine dei rapporti di subordinazione. Potremmo dire che proprio in relazione a questo problema – cioè come definire l’origine delle forme di dominio e i tipi di antagonismi cui danno luogo – si produssero le principali tensioni fra populismo e socialismo latinoamericano di taglio gramsciano (2).

Ciò nonostante, è necessario sottolineare che queste tensioni fra il socialismo e il populismo hanno un antecedente nei dibattiti latinoamericani: la discussione fra José Carlos Mariátegui e Víctor Raúl Haya de la Torre. Nella stessa epoca in cui Antonio Gramsci costruiva un marxismo eterodosso per l’Italia meridionale, questi intellettuali peruviani esprimevano le loro perplessità riguardo all’idea di applicare semplicemente il programma comunista in luoghi così eterogenei come l’America Latina e cercavano di pensare forme di articolazione plebee e interclassiste eterodosse. La tensione appare per il rifiuto che manifesta Mariátegui davanti alla proposta di Haya de la Torre di trasformare il movimento popolare in partito e conseguire, così, la configurazione di una forma statale. È questa stessa tensione che torna a porsi in maniera diversa nel dibattiti degli anni ’80 (3). Mentre il socialismo identificava lo Stato come la forma originaria della dominazione capitalista, il populismo faceva della forma statale uno spazio per l’irruzione plebea e uno strumento di conquiste popolari. Intorno alla questione dello Stato ruoterà quindi uno dei maggiori scontri fra queste due correnti del pensiero latinoamericano. Se per molti socialisti lo Stato funziona come un archetipo di dominazione, sarà conseguente – come cercarono di dimostrare Portantiero e De ĺpola – rappresentare il populismo come un movimento che tradisce il popolare.

È come se la crisi degli Stati oligarchici avesse aperto una finestra di opportunità che il populismo sigillò, ponendo di nuovo lo Stato e le istituzioni al centro della scena. Sebbene sia qui che appaiono tutte le dicotomie tra l’una e l’altra corrente – dato che mentre l’egemonia socialista si assume come una proposta veramente popolare, pluralista e democratica, la populista appare come un cesarismo organicista e antidemocratico che tradisce il popolare – , è chiaro che la pertinenza di questa rappresentazione dipende da come si legge il tipo di opportunità che aprì la crisi, ossia se il populismo operò una ricomposizione o una trasformazione della natura dello Stato. 

Populismo e socialismo concordano nel pensare la crisi dell’oligarchia come l’opportunità per attivare e organizzare i settori popolari sotto forma di volontà collettiva e perché il popolo recuperi il senso e la percezione della nazione che era stata immortalata come Stato-nazione. Tuttavia dal punto di vista socialista, il populismo avrebbe favorito questo recupero del nazionale per poi espropriarlo, avrebbe cioè contribuito a liberare il nazionale per poi appropriarsi del suo significato e ricondurlo ancora sotto il controllo di uno Stato antipluralista. Perciò questa interpretazione pensa l’irruzione del populismo come una ricomposizione dello Stato (che statalizza il popolare), eliminando la possibilità di leggere tale irruzione come una trasformazione (comparsa di una nuova forma di potere) della natura del politico, dovuta alla crisi delle oligarchie, mutazione che porta inoltre al ritorno dello Stato.

È forse necessario prestare attenzione alle forme di questo ritorno e ai tipi di sconvolgimento istituzionale che produce ogni gioco di ripetizione populista nel corso della storia latinoamericana (4). La lettura del “tradimento del popolo da parte del populismo” ha senso solo se si parte da una premessa: che il popolo e lo Stato sono due prodotti sociali conflittuali e autosufficienti. Se lo Stato è visto come un tipo di potere monolitico e chiuso in se stesso, una forma universale immutabile e destinata per natura ad opprimere, allora sì che avrà senso pensare al popolo come sua controparte. Se invece al contrario lo consideriamo come una produzione sociale porosa, come il luogo dove i distinti attori politici lottano per dargli forma al fine di determinare il suo orientamento istituzionale e i tipi di accumulazione e distribuzione, allora sarà più complicato assumere semplicemente questa dicotomia. Non c’è forse in questo movimento di crisi e ricomposizione statale la reiterazione di un atto fondante del diritto esercitato mediante una profanazione popolare (5)?

In questo senso risulta più interessante invertire la questione e chiedersi che tipo di movimento teleologico autorizza a pensare qualcosa come il nazionale “liberato” dalla alienazione statale e recuperato dal “popolo”. È come se il socialismo venisse a risanare la ferita della comunità causata dall’irruzione dello Stato, come se permanesse una inconfessata nostalgia sostanzialista. Potremmo dire che il populismo mette in discussione proprio questa forma di liberazione, posto che non esiste qualcosa come una “sostanza nazionale” sequestrata dallo “Stato” per fini privati, né tantomeno esiste un popolo dato come una realtà preesistente, in attesa di essere liberato. Se c’è qualcosa che permette il populismo è che lo Stato non ha ragione di essere, in senso stretto, una forma di alienazione, quanto piuttosto può trasformarsi in una forma di mediazione del popolare. La confusione sta nel credere che ogni forma di mediazione è una forma di alienazione che opprime una materialità data.  Qui vediamo che il problema di fondo non è altro che l’illusione dell’immediatezza. Assumere cioè che esista qualcosa di non mediato che è sottratto al popolo, e che solo in un ritorno allo spontaneo starebbe la chiave dell’emancipazione. Se lo Stato oligarchico era l’espressione elitista di una determinata forma statale questo non significa che ogni forma statale si riduca a ciò (6). O detto altrimenti, era l’oligarchia che trasformava lo Stato nella proprietà di pochi. Allora perché non pensare che potrebbe essere l’atto di profanazione popolare ciò che converte le istituzioni in uno spazio di contesa per tutti? Ed è qui che troviamo la grande originalità del populismo: correre il rischio di costruire una forma statale in sintonia con l’irruzione delle masse popolari nella politica (7).

II. Come ci ricorda Gramsci, le esperienze popolari sono attraversate da forze reattive ed emancipatrici (8). Ed è all’interno di questa difficile dialettica reattiva ed emancipatrice che si giocano la scommessa populista e la sua modalità di costruzione degli antagonismi che traducono la conflittualità sociale del politico. Le forze reattive lottano per costruire un “noi” a partire dalla credenza in una mancanza che può essere restituita, una identità persa da recuperare, che implica dover delimitare una frontiera tra quelli in basso e una relazione di esteriorità con un altro. Questa frontiera tra quelli in basso è costruita mediante un esercizio chiaramente immunitario, posto che questo altro – l’immigrato, l’indigeno, l’omosessuale ecc… – che rimane rappresentato come esteriorità minacciante del sociale è identificato come l’anomalia che avrebbe rotto da dentro l’identità e l’armonia di un popolo. L’identificazione fra le insoddisfazioni popolari e un elemento perturbatore che è necessario eliminare non è altro che la riattivazione di elementi fascisti che non hanno smesso di essere presenti nelle sensibilità popolari, un “se stesso” che, anche se plebeo, è refrattario a qualsiasi esperienza che non supponga un ripiegamento in sé. 

La dimensione reattiva che pulsa pericolosamente all’interno del populismo non solo indica le élites come le responsabili di questa disgregazione, ma a sua volta promette il recupero di questa perdita. Questa aspirazione ad una totalità persa che ovvi a questa mancanza non è altro che la chiusura in una identità, la quale si presuppone come qualcosa di previamente garantito e violato. Le forze emancipatrici del populismo, al contrario, erodono questo tipo di frontiera antagonistica e riescono a disattivare l’identificazione immunitaria mediante un altro tipo di legame plebeo: l’uguaglianza fra quelli in basso. A sua volta l’antagonismo addita solamente quelli in alto in una maniera non immunitaria, cioè non come quelli che corrompono l’identità previamente stabilita di un popolo, quanto piuttosto come i responsabili della chiusura delle sue possibilità non ancora percorse. Ed è questa forma emancipatrice del populismo quella collegata con la democrazia, posto che la sua forma di costituire tale frontiera sia data da una profonda volontà democratizzatrice (9).

Quanto detto ci porta alla questione se il populismo sia compatibile o meno con la democrazia. L’idea che sia contrario alla democrazia ha senso solo se accettiamo una nozione ristretta di questa, una nozione che fa della democrazia un procedimento formale, consensuale e lontano da qualunque tipo di conflittualità popolare. Una delle grandi difficoltà del nostro tempo è il predominio di questa concezione e l’oblio del senso originale della parola democrazia: potere del popolo. L’immagine di un popolo attivo non solo è scomparsa da un certo registro democratico contemporaneo, ma addirittura viene considerata una minaccia per la stessa democrazia. A differenza di ciò che sono soliti affermare i difensori di questo tipo di democrazia, potremmo dire che il populismo è una delle poche esperienze politiche che tiene viva la figura di un popolo al potere. Perciò invece di dire che il populismo è antidemocratico bisognerebbe piuttosto vedere se riattiva la dimensione costitutiva della democrazia. Ma ancora, l’intento di neutralizzare il vincolo fra populismo e democrazia va a chiudere tutto un campo di riflessioni sul ruolo dello Stato nel nostro presente.

III. Se parliamo di connettere il problema dello Stato con la democrazia, dovremmo indagare il tipo di istituzionalità che favorisce il populismo. È forse solo una forma di potere regolata da un rapporto di dominazione e subordinazione? Non è possibile parlare di istituzioni populiste che non coincidano né con lo Stato oligarchico né con lo Stato liberal-conservatore europeo? La riflessione politica latinoamericana si trova ancora oggi bloccata nel dare una risposta a questa domanda. Per questo è molto importante mettere in relazione il populismo con la tradizione repubblicana, come suggeriscono Carlos Vilas (10) e Eduardo Rinesi (11), al momento di definire le forme realmente esistenti di istituzionalità alle quali hanno dato vita i populismi nell’ultimo decennio. María Julia Bertomeu fa una distinzione molto importante fra due tradizioni repubblicane, una oligarchica o elitista e un’altra democratica o plebea, che può aiutare a riflettere meglio su questo possibile vincolo (12). Quando parliamo del repubblicanesimo oligarchico ci riferiamo alla forma di governo che fa del diritto un meccanismo di conservazione di privilegi. Cioè una maniera di restringere il campo di opportunità di quelli in basso e di ampliare il sistema di privilegi di quelli in alto. Le istituzioni pertanto operano come una forma di dominio e perpetrazione delle diseguaglianze sociali. Il repubblicanesimo plebeo, al contrario, lungi dal rendere invisibile la dimensione conflittuale delle istituzioni, si rivolge ad essa come un meccanismo di ampliamento dei diritti. Qui le istituzioni sono concepite nella loro dimensione egualitaria come lo spazio adatto all’espansione dei diritti e alla disarticolazione della frontiera materiale fra quelli in basso e quelli in alto. 

Se prestiamo attenzione alle forme istituzionali e agli usi del diritto resi possibili nelle esperienze populiste contemporanee, non è possibile trovare casi nei quali sembrerebbe materializzarsi un repubblicanesimo plebeo? Questo implicherebbe rivedere alcune delle premesse attuali della teoria populista che, avendo identificato il populismo con una logica politica di rottura, presenta alcune difficoltà nell’individuare il nesso fra questo e le istituzioni (13). La questione è se sia possibile che tale logica di rottura del populismo non possa estendersi a una determinata forma di istituzionalità che combini dinamiche istituenti dei governi popolari con decisionismo e mobilitazione popolare (14). Per questo è necessario abbandonare il pregiudizio per il quale si considera che le esperienze politiche populiste avrebbero trascurato il ruolo delle istituzioni, dato un peso eccessivo al ruolo dei leaders e smantellato la divisione dei poteri propria delle repubbliche. Quello che dovremmo chiederci qui è se questa impossibilità di pensare una articolazione fra populismo e istituzioni non si debba ad una concezione delle istituzioni ancora erede della matrice liberale procedurale (15). È probabilmente una lettura reificata delle istituzioni ciò che ci impedisce di affrontarle da altre prospettive. La dialettica fra potere istituente e potere istituito, qualcosa che ha attraversato le esperienze populiste dei paesi andini nell’ultimo decennio, aprirebbe la porta allo sviluppo di una matrice di istituzionalità diversa da quella classica liberale e potrebbe generare un quadro di analisi per pensare il gioco fra l’istituito e l’istituente nelle istituzioni populiste. Invece di concepire i sentimenti e le leadership politiche – due elementi chiave della logica populista – come ostacoli alla isituzionalità, ci si dovrebbe chiedere come intervengono nella sua costruzione. O anche come dai conflitti collettivi vanno nascendo, attraverso una concezione plebea del diritto, forme di istituzionalità che non possono essere concepite dalla matrice liberale dell’individuo possessivo. E se di una concezione popolare del diritto si tratta, si comprende meglio come la tradizione repubblicana possa essere una chiave per rendere intelligibile la dimensione repubblicana del populismo. 

IV. Come è risaputo tanto la tradizione liberale (16) come la socialista (17) hanno cercato di costruire ponti verso gli studi sul repubblicanesimo. Senza voler semplificare i dibattiti, si potrebbe dire che il principale disaccordo fra gli studiosi del repubblicanesimo è legato alla divisione fra un repubblicanesimo di matrice liberale e un altro di carattere popolare. Il primo cerca di unire le premesse del liberalismo classico – individualismo metodologico, divisione dei poteri e libertà negativa – con una riflessione sulle istituzioni repubblicane e su come queste possano garantire questi principi. Questo tipo di legame si concentra sulla dimensione consensuale delle istituzioni e abbandona un elemento che sarà chiave per l’altra strada: il conflitto e le forme di organizzazione della sovranità popolare. Da questa prospettiva il conflitto è visto come un fallimento o una debolezza delle istituzioni e della democrazia, e la sua esistenza rappresenta un segno di deterioramento. Il populismo, considerato non solo come una esperienza che costruisce potere a partire dal conflitto – nella forma nazional-popolare –, quanto anche come una forma di conflitto inestirpabile (18), è visto dalla corrente liberale come l’antitesi a qualsiasi progetto repubblicano (19). Però se ci focalizziamo su quelle ricerche che identificano il repubblicanesimo con il potere popolare, è possibile stabilire un dialogo fruttifero con il populismo. Come suggeriscono Eduardo Rinesi e Matías Muraca, potremmo vedere sia nel populismo sia nel repubblicanesimo una concezione del conflitto differente dalla matrice consensualista e liberale (20). Se la lettura liberale concepisce le istituzioni come uno spazio di regolazione del conflitto – con la prospettiva di una futura neutralizzazione –, la matrice populista-repubblicana, al contrario, pensa il conflitto come costitutivo delle istituzioni. Il ruolo delle istituzioni cioè non consisterebbe tanto nel neutralizzare il conflitto quanto nell’esprimerlo e regolarlo in una maniera specifica. Detto altrimenti, le istituzioni stesse possono essere concepite, in termini gramsciani, come un campo di forze, dove il problema dell’egemonia acquisisce tutta la sua importanza analitica per pensare la repubblica nella sua dimensione conflittuale.  Appare così anche una dimensione consensuale, però inseparabile dal conflitto. Questa via conflittuale per pensare le istituzioni pone le basi perché possa iniziare a tessersi un nesso analitico fra gli studi sul populismo, il repubblicanesimo e le istituzioni. Questa articolazione fra la dimensione pratica e teorica ci potrebbe aiutare a indagare come hanno funzionato le istituzioni nelle esperienze progressiste latinoamericane, cioè che forme di isituzionalità e governance hanno reso possibili gli esperimenti populisti dell’ultimo decennio e quali sono stati i suoi punti di forza e le sue debolezze, i suoi risultati e le sue contraddizioni. Contemporaneamente ci permetterebbe di interrogarci intorno alle possibilità (o no) della coesistenza fra figure di leadership e rafforzamento istituzionale, articolazione (o no) di movimenti sociali e istituzioni dello Stato. 

V. Per concludere, almeno in maniera provvisoria, potremmo affermare che tale matrice plebea, di taglio repubblicano-populista, dovrebbe essere assunta all’interno dei dibattiti attuali tra autonomismo e populismo, intesi come una riattualizzazione differita delle vecchie tensioni tra il populismo e il socialismo. Potremmo dire che il posto assegnato ai movimenti sociali da parte dell’autonomismo sia equivalente a ciò che il socialismo attribuiva alla volontà collettiva nazional-popolare. Secondo questa nuova prospettiva, consolidatasi soprattutto nel corso della “lunga notte neoliberale” degli anni ’90, i movimenti sociali sarebbero l’espressione plebea liberata dallo Stato, dai sindacati e dai partiti politici (21).

Questa irruzione plebea porterebbe con sé una domanda di autonomia che aprirebbe le porte all’autodeterminazione e all’emancipazione. Se i populismi della prima metà del XX secolo furono concepiti come un tradimento nei confronti della volontà collettiva popolare, quegli degli inizi del XXI secolo sarebbero da assumersi, dalla prospettiva autonomista, come un tradimento verso i movimenti sociali. In altre parole, la trasformazione plebea dei movimenti sociali si troverebbe reificata ad opera della forma populista; la richiesta di autonomia, subordinata all’interpellanza dello Stato, e la ricerca di emancipazione ridotta ad un cesarismo o rivoluzione passiva di carattere decisionista, verticalista e carismatica.

Tracciate tali coordinate, lo Stato rimarrebbe identificato con l’oppressione, il verticalismo e la “de-democratizzazione”, e i movimenti sociali con l’emancipazione, l’orizzontalità e la democrazia. La domanda da porsi qui è per quale ragione l’ampliamento dei diritti che auspica il populismo non possa essere letto come una forma di autonomia, intesa come capacità di autodeterminazione di un popolo a partire da se stesso mediante l’uso del diritto. Una forma di autonomia che contribuirebbe, anche se formulata dall’alto – diventando paradossale quando ad accedere al governo è un leader indigeno, un professore universitario o un leader sociale dei movimenti sociali – all’emancipazione (“possibilità di autorealizzazione delle nostre capacità”), all’orizzontalità (“tutti siamo uguali sul piano dei diritti”) e alla democratizzazione (“ampliamento del potere popolare”). 

Che una decisione venga presa dall’alto suppone necessariamente rendere subalterno l’elemento plebeo? Perché allora determinate conquiste sociali, spesso raggiunte attraverso l’articolazione fra Stato e movimenti sociali – come lo sono stati la legge sui mezzi di comunicazione e il matrimonio omosessuale in Argentina, la nazionalizzazione dell’acqua in Bolivia e la regolamentazione delle collaboratrici domestiche in Ecuador- non possono comprendersi dal punto di vista dell’autonomismo come passi in avanti verso l’autodeterminazione e l’emancipazione da certe forme di oppressione popolare (22)?

Non sono queste le esigenze dei movimenti sociali quando reclamano l’istruzione universitaria gratuita o la normativa fondiaria per evitare gli sfollamenti forzati/trasferimenti coatti? Interpellare i movimenti sociali non è forse un modo di esigere maggiore istituzionalità e presenza dello Stato nei luoghi in cui questo non è storicamente arrivato?

Se l’attuale crisi del neoliberalismo- intesa come un nuovo patto post-democratico- trova espressione nella distorsione del senso della democrazia e allontana sempre più gli strati popolari dall’accesso ai diritti e alle istituzioni, potrebbe risultare di grande utilità soffermarci a pensare come gli usi popolari del diritto, all’interno di una matrice populista-repubblicana, aiutino a immaginare un’alternativa a tale scenario. È vero che molte volte i populismi non sono stati all’altezza di questa sinergia tra le istanze popolari e l’ampliamento dei diritti, ma fare del vincolo tra le richieste e lo Stato la quintessenza dell’oppressione non ci farà progredire nella riflessione sulle forme realmente esistenti di emancipazione sociale né, tantomeno, nella possibilità che tale congiuntura apre per continuare a radicalizzare la democrazia nel nostro continente.

Note

(1) V. Coronel, La última guerra del Siglo de las Luces. Revolución Liberal y formación del Estado nacional en el Ecuador (1880-1926), Flacso, Quito, in corso di pubblicazione.

(2) Ernesto Laclau, Política e ideología en la teoría marxista. Capitalismo, fascismo, populismo, Siglo xxi, Madrid, 1978.

(3) Eccederebbe i propositi di questo lavoro stabilire una genealogia che permetta di comprendere come passarono questi dibattiti fra Mariátegui y Haya de la Torre, proprio della prima metà del XX secolo, alle discussioni degli anni ’80, per cui ci limitiamo a segnalare la coincidenza tematica.

(4) Gerardo Aboy Carlés, Las dos caras de Jano: acerca de la compleja relación entre populismo e instituciones políticas, in  “Pensamiento Plural” No 7, 7-12/2010 e L. Cadahia, Hacia una nueva crítica del dispositivo, in “Utopía y Praxis Latinoamericana” vol. 19 No 66, 7-9/2014.

(5) James Sanders, Contentious Republicans: Popular Politics, Race, and Class in Nineteenth-Century Colombia, Duke University Press, Durham, 2004.

(6) V. Coronel, Justicia laboral y formación del Estado como contraparte ante el capital transnacional en Ecuador 1927-1938,  in “Illes I Imperis”, No 15, 2013.

(7) Gino Germani, Autoritarismo, fascismo y populismo nacional, Temas, Buenos Aires, 2003.

(8) A. Gramsci, Cuadernos de la cárcel, vol. 6, Era, Ciudad de México, 2000.

(9)  L. Cadahia, Populismo y democracia: una alternativa emancipadora, in “Cuba Posible”, 23/5/2017.

(10) C. Vilas, ¿Populismos reciclados o neoliberalismo a secas? El mito del neopopulismo latinoamericano, in “Estudios Sociales”, No 26, 2004.

(11) C. Vilas ed E. Rines, Populismo y república. Algunos apuntes sobre un debate actual, in E. Rinesi, Gabriel Vommaro y Matias Muraca (a cura di),  Si este no es el pueblo. Hegemonía, populismo y democracia en Argentina, iec, Buenos Aires, 2010.

(12)M. J. Bertomeu, Republicanismo y propiedad, “Sin Permiso”, 5/7/2005.

(13) E. Laclau, La razón populista, fce, Buenos Aires, 2009.

(14) L. Cadahia, V. Coronel e Franklin Ramírez (eds.), A contracorriente: materiales para una teoría renovada del populismo, Vicepresidencia del Estado Plurinacional de Bolivia, La Paz, in corso di pubblicazione.

(15) L. Cadahia, Espectrologías del populismo en Ecuador: materiales para una lectura renovada de la Revolución Ciudadana, in La Revolución Ciudadana en escala de grises, iaen, Quito, 2016.

(16) Philip Pettit, Republicanismo, Paidós, Barcelona, 1999.

(17) Antoni Domenech, El eclipse de la fraternidad, una revisión republicana de la tradición socialista, Crítica, Madrid, 2004.

(18) Chantal Mouffe, El reto populista, “La Circular”, No 5, 10/11/2016.

(19) Roberto Gargarella, Christian Courtis, El nuevo constitucionalismo latinoamericano: promesas e interrogantes, Cepal / asdi, 11/2009.

(20) E. Rinesi, G. Vommaro y M. Muraca (comps.): op. cit.

(21) Massimo Modonesi e Maristella Svampa, Post-progresismo y horizontes emancipatorios en América Latina, “La Izquierda Diario”, 10/8/2016.

(22) Soledad Stoessel, Los claroscuros del populismo. El caso de la Revolución Ciudadana en Ecuador, “Pasajes”, No 46, 2014.

Da “Nueva sociedad”, gennaio-febbraio 2018

Traduzione a cura di Elena Albanese e Alessandro Volpi

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