Cultura | Politica

Perché non ci interessa “unire la sinistra”?

10 Luglio 2017

Esistono alcune categorie del conflitto politico che tendono a ricorrere nella storia delle società divise in classi, sia pur con forme molto variegate: tra queste vi è per esempio il costituirsi di formazioni rappresentative delle istanze dei poveri contro quelle dei ricchi, di chi è escluso dalla detenzione del potere politico contro chi ne è incluso, delle minoranze religiose/etniche/linguistiche contro e in difesa dalle maggioranze e così via. Tra queste categorie non rientra, invece, la “sinistra”, nozione epistemologicamente vaga, che rimonta alla Rivoluzione francese, strettamente legata al modo di funzionare (e ai limiti!) delle assemblee parlamentari, idonea a riempirsi di contenuti storicamente diversi nel corso degli ultimi secoli e ad esprimere interessi sociali tra loro variegati.

Per venire al panorama italiano, nessuno si sognerebbe di identificare la Sinistra storica con le istanze del quarto stato, che nel frattempo cominciavano a organizzarsi politicamente altrove (Partito socialista, sindacalismo rivoluzionario, movimento cooperativo, ecc.) e, pur senza disconoscere importanti convergenze con l’Estrema sinistra storica, assumevano ben presto un profilo autonomo anche da essa. Al di là della collocazione fisica degli eletti nelle aule rappresentative, l’identificazione della “sinistra” con le formazioni rivoluzionarie delle classi popolari resta un discorso a lungo minoritario nell’immaginario socialcomunista italiano, salvo riaffiorare in misura crescente nel corso della prima Repubblica, da un lato con l’ammorbidimento progressivo e scaglionato dei connotati rivoluzionari delle fazioni che in assemblea costituente avevano rappresentato le istanze delle classi popolari, dall’altro con la sua ripresa semantica ad opera di forze nate negli anni del movimento, connotata dall’aggettivo “rivoluzionaria” per distinguersi dalla deriva compatibilista adottata, in ultimo, anche dal PCI del compromesso storico. L’identificazione nominale tra movimenti rivoluzionari e “sinistra” prendeva corpo e si riempiva di significato in molti Paesi e contesti geopolitici (un esempio tra tanti, il MIR in Cile), senza, probabilmente, diventare maggioritaria tra le popolazioni del mondo (per es., senza prendere piede nel continente più popoloso, l’Asia).

Tutto ciò testimonia come l’identificazione tra sinistra e istanze popolari di trasformazione sociale, o quantomeno la loro convergenza, siano state possibili e persino frequenti tra l’età moderna e quella contemporanea e siano tuttora probabilmente attuali e significative in alcuni Paesi; in molti altri no, e lì le esperienze politiche di rottura di maggior interesse sono proprio quelle che hanno saputo disfarsene, senza con questo compromettere i propri connotati e contenuti rivoluzionari, ma adattandoli al tempo. Tornando a noi oggi in Italia, ritengo politicamente sbagliato e fuorviante operare una simile equazione. Non identificandosi la “sinistra” con un significato preciso e circoscritto, ma con nozioni storicamente determinate e di volta in volta convenzionali, non vedo l’utilità di accanirsi a negare a Renzi, D’Alema e relative consorterie il fregio della sinistra, quando essi sono diffusamente percepiti come tali.

Una tendenza negli ambienti politici progressisti è invece quella di sostenere che costoro hanno tradito la sinistra e di cercare di ricostruire una sinistra contro e fuori questa “falsa” sinistra. Questo modo di operare mi sembra fondarsi sull’assolutizzazione e cristallizzazione di certe nozioni di “destra” e “sinistra”, quali quelle autorevolmente definite da Bobbio intorno alla dialettica eguaglianza-libertà. Il punto non sta affatto nel criticare la teoria di Bobbio (anzi, la dialettica eguaglianza-libertà resta fondamentale nel definire lo spettro delle posizioni politiche!), ma di interrogarsi sull’utilizzabilità oggi, nella politica italiana, per realizzare un programma politico di rottura, del quadro semantico (convenzionale) a cui Bobbio, tra gli altri, aveva agganciato la propria analisi. Ecco, penso che la risposta a questa domanda non possa che essere pragmatica, ed essa deve essere positiva laddove la nozione di sinistra abbia mantenuto un forte ancoraggio popolare e l’abbandono di certi valori da parte di formazioni con una storia di sinistra possa essere diffusamente percepito come un tradimento di quei valori. È un’operazione politica che, forse, 15 anni fa avrebbe potuto avere un senso; oggi, nel nostro Paese, i suoi presupposti non ci sono più e tentare di perpetuarne le vestigia diventa solo una fonte di confusione e di ambiguità, uno stratagemma in cui tanti si sono crogiolati per anni al solo scopo di raggranellare qualche poltrona e poltroncina, ben lontani dal senso comune e creando un terreno fertile per quei gruppuscoli terzo-posizionisti che, dietro la critica dell’inattuale e impopolare dialettica destra-sinistra, e provando a cancellare con essa anche la dialettica fascismo-antifascismo, cercano, con qualche successo, di creare spiragli per il riaffiorare della più bieca e aperta reazione.

Per cui, in definitiva, lasciamo la sinistra a Renzi e D’Alema, lasciamo la sinistra al capitale, o meglio ad alcuni suoi settori (come d’altronde era già ai tempi di Depretis e Crispi), e, piuttosto che spendere sforzi disperati per risemantizzare in senso di rottura un concetto perfettamente riassorbito nella sfera della compatibilità al sistema, individuiamo le parole più adatte a costellare il nostro immaginario di rivoluzionari del nostro tempo, i concetti-chiave che più si prestano a fondare un tale discorso e facciamo dello stesso un paradigma unificante di contro-egemonia e di contro-potere popolare! Renzi e D’Alema sono la sinistra; noi siamo la rottura sociale, noi i rivoluzionari!

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