Cultura | Stoccate

Dalla parte degli ignoranti

22 Febbraio 2017

Pochi giorni fa è apparso su Pagina 99 un articolo, “Sono élite e me ne vanto”, che tenta di far passare la falsa idea di una contrapposizione tra il mondo della cultura e quello della gente comune, dove gli “acculturati” dovrebbero imbarcarsi in una battaglia a difesa dell’élite da loro rappresentata. Ora, se da una parte l’articolo contiene un richiamo condivisibile contro l’anti-intellettualismo reazionario in espansione – che attacca le competenze e l’istruzione gettando discredito verso le forme del sapere, di cui molti di noi hanno fatto esperienza – dall’altra si rivela essere un’accozzaglia fuorviante con diversi passaggi tutt’altro che chiari nella loro logica.

L’autrice, Flavia Gasperetti, stabilisce un’equazione arbitraria tra l’essere un intellettuale e l’essere un salottiero, radical-chic, fighetto, più che benestante se non ricco, un borghese. Poi prosegue rivendicando l’appartenenza all’élite liberale e metropolitana, ma anche ad una qualche eredità comunista – come se le due cose potessero stare insieme così a caso – per poi finire nella constatazione che l’élite progressista vive la propria condizione elitaria come una sconfitta morale, con un senso di colpa verso “gli svantaggiati” (quanto paternalismo) che, tuttavia, andrebbero mandati a quel paese, dato che non capiscono e virano su Trump e la Le Pen. L’autrice individua gli unici problemi di questa élite  nei soliti svilenti clientelismi per cui si viene sorpassati da chi ha meno competenze di noi in base ad altre logiche (affermazione ineccepibile quest’ultima) e, al contempo, chiama a raccolta la sua élite contro quelli che oggi vengono mediaticamente definiti i populisti (che al solito non vengono chiamati con il loro nome, quasi che a pronunciare il nome della bestia questa torni a materializzarsi, e cioè fascisti). Insomma, l’articolo è un guazzabuglio che rischia di portare fuori strada.

Intanto inquadriamo da quale area politico-culturale proviene questa miscellanea. Abbiamo di fronte un’élite, che si autodefinisce borghesia, liberale e liberista, che si ritiene l’erede storica del socialismo e del comunismo, senza peraltro esserlo affatto: in una parola sola, quell’élite che di norma viene descritta e percepita come la “sinistra”. Una sinistra antropologicamente diversa però da coloro che identifica come i suoi antenati. D’altronde, Pagina 99 si è spinta a mettere in relazione l’intervento statale in economia con il totalitarismo. Siamo di fronte allo stesso equivoco identitario-politico che tiene in scacco la cosiddetta sinistra radicale, che a parole condanna il neoliberismo, ma poi nei fatti ne assume le ragioni (chi si ricorda il manifesto di SEL a Roma su Steve Jobs?), per cui la sua critica si rivela innocua con i conseguenti risultati elettorali disastrosi.

Per impostare correttamente la questione converrà fare alcune considerazioni diverse, chiarendo a quale tipo di storia un intellettuale progressista – che non vuol dire affatto membro delle élite – dovrebbe oggi rifarsi. Come tutti sanno le parole cafone, bifolco, nella nostra lingua attuale sono sinonimo di rozzo, ignorante. Ma questa accezione deriva da quella in uso dalle élite del passato, mentre il significato popolare rimandava a figure del lavoro agricolo. Non a caso Giuseppe Di Vittorio, nato bracciante, rivendicò sempre di stare dalla parte dei cafoni. Nel 2009 una fiction RAI ci ha ricordato questo piano discorsivo, per cui eviterò di riportare qui qualche dotta citazione del sindacalista pugliese preferendo le parole di Pierfrancesco Favino, che interpretava Di Vittorio nella miniserie “Pane e libertà”: «Questa mattina, qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo nei confronti della mia presenza qui, ha mormorato, un cafone in parlamento, ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualche cosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie, che con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori perché la fame, la fatica, il sudore, non hanno colore, e il padrone è uguale dappertutto». Ecco, in una produzione per la cultura di massa, un discorso che tiene insieme le ragioni dei ceti popolari non istruiti con una rivendicazione di universalismo progressista. Forse l’élite a cui fa riferimento la Gasperetti dovrebbe iniziare a guardare anche le fiction in due puntate. Se non altro per evitare di non capire quello che sta succedendo.

Perché quello che sta avvenendo non è uno scollamento tra la cultura e la gente comune, ma è semmai il riemergere di una cultura popolare che produce i propri significati e cerca di riarticolare i propri ragionamenti a fronte degli sconquassi economici e sociali provocati dal neoliberismo. Una cultura popolare che non per forza prende la strada del fanatismo xenofobo, nazionalista e neofascista, ma che ad oggi fatica a trovare referenti. Un esempio fra tanti. Poche settimane fa ero impegnato in alcune visite guidate ad un vagone degli anni ’40 nel quale era allestita una mostra sulla Shoah. Lì sono stato avvicinato da un autista di mezzi pubblici, 47enne, in pausa dal lavoro. Voleva esprimere la sua preoccupazione per quanto vede accadere ogni giorno contro i migranti, «ci risiamo di nuovo», dopodiché si è autodefinito un “ignorante” ed è partito: «io che ho solo la terza media, ho iniziato a lavorare a 15 anni, tante cose non le so, ma qui ci hanno portato via tutto, la sanità è privatizzata, se non hai soldi non ti curi, l’Europa ci sta rovinando, ci stanno togliendo tutto, non c’è lavoro, i giovani devono andare via, i diritti te li tolgono, hanno fatto il job acts, sembra che si vada all’incontrario…». Ora, questa persona potrà essere populista, ma certo non xenofoba, nazionalista ecc… e si definiva con serenità un “ignorante” senza risentimento verso chi nel lavoro culturale è impiegato, anzi cercava un confronto. Lo “svantaggiato” in questione le cose le vedeva molto chiaramente, il problema è se viene schifato. Come ormai scrivono ovunque gli osservatori, se queste persone comuni finiscono per votare Trump è perché non trovano nessuno che le ascolti con empatia e proponga un progetto politico in cui si possano riconoscere con le loro esigenze, basato su valori universalitici e in difesa di condizioni di vita decenti.

Il punto dunque sta altrove. Come mi ha detto un immigrato albanese, da 25 anni in Italia ma oggi disoccupato: «il problema è che dove c’è la povertà l’integrazione non la fai». Aveva ragione. Ormai è un susseguirsi di statistiche che ci raccontano la caduta dei livelli di vita, il declassamento, la povertà in espansione, specie fra i giovani, la polarizzazione della ricchezza. Purtroppo l’essere diffidenti verso l’estraneo fa parte della nostra natura umana. Ma questa diffidenza si supera con il benessere, con la redistribuzione delle risorse oggi accaparrate, condizioni basilari per aprire uno spazio di conoscenza e convivenza. Quando questo terreno viene a mancare tutto può diventare nemico, e il nemico per antonomasia diventa il diverso accanto a te. A quel punto trova spazio il neofascista, quello che fa leva sulla paura dello straniero che “ti ruba” le risorse, che ti indica i mali nella minaccia alla tua cultura intesa in senso etnico e nazionalista, quello che ti propugna una soluzione basata sull’idea di una comunità escludente e sostituisce al conflitto verticale verso le élite economiche detentrici delle risorse un conflitto orizzontale fra i gruppi popolari. Lo diceva Hobsbawm parlando della patria dei lavoratori: «tutte le classi lavoratrici cosiddette “nazionali” consistono in un mosaico di gruppi eterogenei», ma «le differenze comunitarie da sole non hanno impedito ai movimenti operai di organizzare con successo i lavoratori al di là di tali divisioni». Hanno infatti ceduto solo quando «forze disgregatrici, sotto forma di partiti e movimenti politici come quelli ispirati al nazionalismo» e provenienti dall’esterno dei gruppi popolari hanno iniziato a cercavi consenso spingendo sulle divisioni nazionali, religiose e razziali. Niente di diverso da quanto accaduto nella Jugoslavia degli anni ’90.

Inquadrato quindi che storicamente i movimenti progressisti non sono stati in conflitto con i “cafoni”, e che non per forza oggi gli “ignoranti” sono in conflitto con la cultura, cerchiamo di chiarire anche l’altro aspetto messo in risalto dall’articolo di Pagina 99. Ma è poi vero che oggi gli “acculturati” sono un élite borghese? La risposta è semplice. No. A fronte di una Gasperetti che si vanta di essere élite culturale borghese, c’è un numero incalcolabile di persone ad alta formazione che sono malpagate, sottopagate, non pagate, precarizzate, costrette ad emigrare come un tempo i lavoratori delle braccia, che guadagnano meno di una cassiera di un supermercato nonostante un infinito impegno di studio. È vero, anche loro subiscono l’ondata di anti-intellettualismo reazionario, ma non sono certo un’élite salottiera, semmai degli “svantaggiati” estranei a quel mondo. Sono gli “operai della conoscenza”, come li ha opportunamente definiti Alfabeta2 nel 2010, l’ultimo prodotto del capitalismo odierno. Operatori culturali, designer, architetti, grafici, scrittori, giornalisti, artisti, studiosi di ogni disciplina, lavoratori della moda, comunicatori, insegnanti precari… intelligencija in una parola. Persone contro le quali i sostenitori del neoliberismo vagheggiano la favola che sono così innamorate del loro lavoro da essere disposte a farlo precariamente e a paghe infime, come se fosse un valore aggiunto, quando in realtà sarebbero ben contente di farlo con riconoscimento della professionalità, possibilità di dire la loro su tempi e metodi del lavoro (la vecchia frontiera del controllo), stabilità e magari guadagnando dignitosamente. Queste persone non sono élite, non sono entrate a far parte della borghesia solo perché sono istruite (se guadagni poco più o poco meno di 1.000 Euro al mese che borghese sei? Fatichi anche ad accedere ai consumi del borghese), si vantano sì delle loro competenze – tutti si vantano di quello che sanno fare bene – ma non come sentimento di classe contro la gente comune, perché in una società “della conoscenza” la gente comune sono anche loro. Anzi vivono la loro condizione con un di più di disperazione, perché sono in via di declassamento, perché si erano immaginate e sognate una vita che poi è diventata una chimera, perché non si possono sentire emancipate dal secolare servaggio come i loro nonni e genitori, ma ci stanno rientrando.

Non si tratta quindi di livellare la nostra cultura verso “il basso”, svilendola e cedendo sui valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della convivenza – mentre l’élite della Gasperetti manifesta diverse tendenze a cedere a sua volta sui valori della democrazia a partire dal suffragio universale. Si tratta semmai di fare un’operazione di artigianato culturale in direzione di un’altra egemonia discorsiva, di una nuova cultura con la quale affrontare la crisi del presente sapendo bene che “dal basso” già emergono le sue istanze, che gli “esclusi” della cultura sono organici alla gente comune,  possono essere in grado di riarticolare in forma non ritualistica le tante istanze sparse in cerca di una nuova sintesi. Già Gramsci spazzò via il malinteso di un’equazione fra l’essere élite borghese e l’essere intellettuali. A suo avviso ogni gruppo sociale «nascendo sulla base di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, crea insieme, organicamente, un ceto e più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione nel campo economico». Anche i ceti popolari sono dunque in grado di produrre i propri intellettuali, e già ci sono come abbiamo visto: è una falsa contrapposizione quella tra cultura e gente comune di cui è urgente liberarsi al più presto.

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