Cultura

America First! La pandemia e l’eterno ritorno dell’eccezionalismo americano

23 Maggio 2020

Ha avuto un bell’ardire «Il Foglio» a pubblicare sulle proprie colonne ampi stralci di un volume edito negli Stati Uniti agli inizi del 2017 (e prontamente ristampato  quest’anno con un’edizione aggiornata), il cui autore è l’epidemiologo americano Michael Osterholm, professore all’Università del Minnesota e a capo del Center for Infectious Disease Research and Policy. Questo il titolo: Deadliest Enemy: Our War Against Killer Germs. Osterholm ha ricoperto per venticinque anni vari ruoli all’interno del dipartimento della Sanità del Minnesota; inoltre, è stato consigliere sul bioterrorismo per il ministero federale della Sanità oltre a diventare, per un certo periodo, consulente per i rischi biologici al Dipartimento della Sicurezza nazionale.

Come ha evidenziato «Il Foglio», Osterholm non è un ricercatore puro, ma «uno scienziato che ha frequentato a lungo i corridoi della sanità pubblica, che sono poi i corridoi della politica». Ed è proprio da questa esperienza che trae origine e forza la pubblicazione in questione: l’autore dimostra quanto le politiche di prevenzione in materia di sanità pubblica siano le uniche in grado di arginare – grazie anche a quella che viene chiamata epidemiologia consequenziale – l’intensità di future epidemie e di far sì che la politica possa trasformare le evidenze della scienza in corretti piani preventivi. Osterholm aggiunge altro, si accorge di quanto tali piani precauzionali siano politicamente improponibili, sia a causa degli alti costi che essi comportano da parte della sanità pubblica, sia perché in tempi di diritti materiali in aumento è difficile per l’attività politica giustificare misure costose che non regalano ampi consensi.

Fin qui, nell’ovvietà di un ragionamento scientifico inserito all’interno dei meccanismi istituzionali di una cultura politica democratica, parrebbe non esserci niente di irragionevole, né di irricevibile. Sennonché, proprio perché Osterholm è consapevole che i progressi della scienza diventano nulli senza un appoggio diretto delle comunità politiche, ecco che l’autore compie una virata repentina, perde di vista (volutamente) il campo della ricerca applicata alle dinamiche sanitarie per addentrarsi nella politica pura, nella teoria politica (e nei paesi anglosassoni quest’ultima non è mai disgiunta da una formidabile prassi politica), in una sorta di parossismo universalistico che la tensione ideale – con connotati provvidenzialistici – riesce a tenere a galla: il pensiero critico diviene pensiero dominante, si allargano le maglie di una rete che non riesce a trattenere granché e lascia passare di fronte a noi ampi pezzi della storia americana, ampi brandelli di un destino manifesto, il quale, redivivo, si dispiega davanti a noi che leggiamo.

Ciò è evidente se ci soffermiamo sull’ultimo capitolo della pubblicazione, Battle Plan for Survival, dove vengono descritti gli indirizzi generali e le caratteristiche principali dei piani di prevenzione sanitaria che a livello globale si dovrebbe cercare di definire e attuare per sconfiggere future pandemie. Eccone un breve ma denso estratto: «Si arriva dunque alla questione cruciale su quale tipo di leadership, comando e strutture di controllo servono per rendere praticabili tutte le iniziative […] descritte. Una delle premesse della nostra Agenda di Crisi è che gli Stati Uniti devono essere la guida primaria, avere la responsabilità sostanziale e assumersi gli oneri finanziari maggiori […]. Le revisioni interne ed esterne delle performance dell’Oms durante l’epidemia di Ebola del 2014-2016 nell’Africa Occidentale testimoniano le scarse capacità della comunità internazionale della sanità pubblica e dell’Oms stessa di rispondere a crisi del genere». Poi la chiusura: «Occorre spiegare in modo chiaro di cosa abbiamo bisogno per una leadership globale nel settore e dobbiamo considerare approcci alternativi. Come Lincoln ha dovuto provare una serie di generali prima di trovarne uno in grado di guidare le truppe dell’Unione alla vittoria [così] per salvare noi stessi e il resto del mondo, noi negli Stati Uniti dobbiamo farci avanti».

Deadliest Enemy è dunque un libro costruito intorno a una sorta di forward strategy, sulla capacità degli USA di tornare a produrre – così come fu durante gli anni ’50 del Novecento all’interno del Patto atlantico – una visione, una strategia geopolitica di lungo periodo in grado di far arretrare il nemico (in questo caso le epidemie), di costringerlo a ripiegare su sé stesso mediante l’uso (e l’abuso) di tecniche di contenimento derivate dalla logica dei blocchi contrapposti originatisi durante il periodo della guerra fredda. Non solo: a ben guardare si nota quanto la narrazione sia ricca di richiami linguistici mutuati direttamente dalla retorica di guerra – Enemy, Battle Plan, War, Killer – e sono continui i rimandi a una catena di comando che vede negli Stati Uniti la potenza politica e ideologica capace di condurre a buon esito la battaglia; Osterholm descrive e immagina nella sua pubblicazione una vera e propria «organizzazione [sanitaria globale] sul modello della NATO».

E non è casuale nemmeno il richiamo al presidente Abram Lincoln e a quello che, dopo la battaglia di Gettysburg del 1863, venne definito come Lincoln Address: la donna angelica raffigurata sul dipinto del pittore statunitense J. Gast nel 1872, allegoria del Destino manifesto e degli stessi USA, è ancora tra noi. Porta ancora con sé la luce della civilizzazione, non solo verso l’Ovest americano, ma sempre più in là, avanzando strategicamente e ineluttabilmente, accompagnata non da una politica specifica ma animata da un concetto di civiltà che per i coloni anglosassoni trapiantati al di là dell’Atlantico aveva il sapore di una virtù fondata sulla libertà di un nuovo, grande e democratico paese.

Virtù, missione e destino riecheggiano nella prosa di Osterholm, e Lincoln rappresenta la chiave interpretativa su cui ricostruire una politica forgiata da secoli di eccezionalità insita nel popolo americano. L’eredità puritana dell’America, la sua origine ideologica legata a doppio filo con la morale protestante manifesta, di nuovo, la volontà degli Stati Uniti di percepirsi come quella comunità di popolo e di destino che deve essere esempio luminoso per il mondo – così come recita il sermone Città sulla collina di J. Winthrop (1630). 

Non è casuale il richiamo al Lincoln Address perché è proprio da esso che il linguaggio di Osterholm trae forza. Il discorso pronunciato da Lincoln  nel novembre del 1863 nel cimitero di Gettysburg – dedicato alle vittime unioniste cadute sotto i colpi delle truppe confederate durante gli anni della guerra civile americana – interpreta la guerra come una lotta per determinare se una qualsiasi nazione con gli ideali degli Stati Uniti possa riuscire a sopravvivere. Qui risiede l’eccezionalità, qui sorge la credenza in una missione civilizzatrice di portata globale e la pretesa di un’autenticità morale propria della tradizione politica americana: si pretendeva (e Osterholm lo pretende nel suo scritto) di riuscire a determinare il reale mediante una metafisica che postulava un universalismo, una verità di stampo positivistico edificata su una comunità di destino e  vivificata dal sangue e dal suolo. Oltremodo non casuale il fatto che Lincoln abbia pronunciato tale discorso in un cimitero – così come non è casuale che Osterholm leghi la propria narrazione alle parole di un Presidente così ‛vicino’ alla morte. I cimiteri venivano costruiti spesso al centro delle città, la morte non era avulsa dalla vita, era tollerata e non si contrapponeva a quest’ultima; i cimiteri rappresentavano così il compimento di un destino, di un’esistenza collettiva. Queste catacombe di epoca moderna divenivano un luogo di vita nel momento in cui esse stesse traevano la propria forza da una fatalità che trascendeva il dato empirico – cioè l’ambito prettamente sensoriale – per accostarsi a categorie concettuali che scorgevano nella morte la necessarietà della vita e, in questo caso, dimostravano l’eccezionalità della storia americana: essa si compiva nella vita e nella forza di una comunità politica innervata da una tensione provvidenzialistica generata, paradossalmente, dalla morte.

È in questo richiamo diretto a Lincoln, e all’uso che Osterholm ne fa, che la narrazione di Deadliest Enemy perde ogni evidenza legata alla riflessione propriamente scientifica per spostarsi su un terreno scivoloso e soggetto a frane quale è quello di un pensiero dominante, universalistico, e che niente ha a che fare con la scienza. Essa, così come l’arte o la musica, deve essere uno strumento del divenire e non poggiare su una staticità ideologica asfissiante. Oltretutto, con la presunzione di sostenere una teologia politica le cui fondamenta affondano su un terreno fragile quale è quello dell’integralismo moraleggiante postulato da un Sollen (Dovere) e figlio di un certo filisteismo culturale. L’alterità tra Io e mondo dovrebbe rimanere la tematica centrale dalla quale originare il discorso sulla politica, sui suoi mezzi, sui ruoli che essa assume e sulle maschere che spesso indossa e non, viceversa, produrre un pensiero egemone che altro scopo non ha se non quello di legare inesorabilmente, in questo caso, ideologia della scienza e massimalismo politico (Manifest Destiny).

Nemmeno la guerra basta più a Osterholm per fronteggiare il bisogno di una direzione unilaterale sulla salute pubblica globale, perché «come chiunque abbia combattuto una guerra può testimoniare, tutte le risorse del mondo non garantiscono nulla senza leadership, responsabilità e una efficace catena di comando». Siamo dunque di fronte a un salto di qualità, la riflessione sulla prevenzione sanitaria mondiale diventa un cavallo di Troia dal quale far uscire, in forme più o meno contemporanee, un vecchio artificio retorico della politica americana: l’eccezionalismo e una moralità – altra rispetto a quella di coloro che dovrebbero subirla  sotto forma di servaggio – che informa la sfera dell’etica e della politica.

A ciò si potrebbe rispondere riproponendo un breve passaggio ripreso da La Peste di A. Camus, nel quale lo scrittore tratteggia magistralmente – nel dialogo tra i due personaggi principali del romanzo, il dottor Rieux e il giovane Tarrou – l’abisso che si crea tra coloro che professano una fede (una verità assoluta) e coloro che si limitano a lavorare a favore di un pensiero profondo, per sua natura critico e parziale: «Paneloux è un uomo di studio [è un padre gesuita], non ha veduto morire abbastanza: per questo parla in nome d’una verità. Ma ogni piccolo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e ha sentito il respiro dei moribondi, la pensa come me. Curerebbe la miseria prima di volerne dimostrare la perfezione».

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