Cultura

Il fallimento politico dell’euro

10 Luglio 2017

Siamo convinti sia urgente un discorso di verità, a sinistra e in generale nel paese, sull’Europa dell’euro: questa è l’unica possibilità di contrastare non genericamente il “populismo”, ma le spinte regressive a una rinazionalizzazione da destra delle politiche, in chiave di identità escludente, con una insidiosa e niente affatto benaugurante sovrapposizione di problemi che possono e debbono essere tenuti distinti: stagnazione economica e flussi migratori.

L’ipotesi funzionalista, secondo la quale l’unione monetaria avrebbe portato progressivamente a un’unione politica, si è rivelata fallimentare. Per buoni motivi di teoria politica e costituzionale: pretendere di produrre un grande effetto politico, aggirando il nodo della decisione politica, ed escludendo i popoli europei, era una contraddizione concettuale (soprattutto in un contesto  democratico) e un azzardo. La via alternativa, quella di un processo costituente europeo di segno democratico e sociale, forse possibile qualche anno fa, ad esempio quando è esplosa la crisi finanziaria e si è dovuto affrontare il caso greco, non è realisticamente all’ordine del giorno: la Germania (anche la SPD) ha mostrato chiaramente di non essere disposta ad accettare gli oneri di un’effettiva unione politica della solidarietà.

Di conseguenza, nell’attuale strozzatura politica, lo spazio di manovra e decisione democratica risulta ridotto a zero nei paesi del Sud Europa, Italia in primis. Di qui la necessità, per una sinistra che non voglia scomparire del tutto, di tornare a proferire parole che facciano presa sulla realtà. Prendere atto del fallimento – politico prima ancora che economico – dell’euro non significherà uscire automaticamente dal neoliberismo, com’è stato osservato, ma significherà certo riconquistare margini di autonomia democratica e quindi di lotta politica e sociale, liberandosi da vincoli automatici e soffocanti. La disgregazione dell’euro comporterà problemi, non c’è dubbio. Tuttavia, tentare di tenerlo in piedi ad ogni costo quali spazi di manovra offre per una politica di sinistra credibile? Almeno si abbia il coraggio di dire che, rimanendovi a queste condizioni e “comprando tempo” (ma fino a quando sarà possibile? e a quali ulteriori prezzi sociali e democratici?), ci aspettano disoccupazione, taglio dei diritti e deflazione salariale sine die.

In realtà, ci pare che sia piuttosto venuto il momento di aprire un dibattito a sinistra su un passo che appare sempre più inevitabile, per le ragioni politiche – non meno ferree delle ragioni economiche – di cui prima dicevamo. Al punto in cui siamo, c’è da capire se riusciremo a compiere questo passo con un minimo di consapevolezza, facendo attenzione a dove mettiamo i piedi e decidendo noi dove metterli, oppure se lo dovremo compiere sotto la spinta irruente e cieca delle forze nazionaliste che si stanno gonfiando in tutta Europa. Rimanere fermi ad aspettare, come i fatti dimostrano, non fa bene all’Europa. Semmai le fa correre il rischio di essere portata a picco nella sua interezza dal lento naufragio della moneta unica, giudicato ineluttabile da economisti di fama mondiale, e da tutti gli scompensi sociali e politici che questo lento, lentissimo naufragio sta provocando. È tempo di dirlo ad alta voce: essere veramente europeisti oggi impone di dire la verità sull’euro, per salvare – finché c’è tempo – le cose che vale la pena salvare di un’Europa che è lungi dall’essere soltanto l’Europa dell’euro.

Alla luce di questi elementi, rinunciare alla moneta unica non equivale a buttarsi gratuitamente in un’avventura politica sconsiderata. Equivale a optare per una scelta responsabile. E i toni vanno sdrammatizzati. Non ci aspetta l’abisso – né sul piano economico né sul piano istituzionale. Sul piano economico, una fine concordata dell’euro è l’opzione che molti economisti continuano a considerare la più auspicabile ed è quella alla quale bisognerebbe puntare in prima battuta (la Germania potrebbe riservare sorprese al riguardo, rivelandosi un interlocutore meno rigido di quanto si potrebbe pensare). Ma anche un’uscita unilaterale resta possibile, per quanto più difficile da gestire. Molto dipende in effetti dalla dinamica politica, a priori imprevedibile, che si innescherà una volta che si comincerà a discuterne. Spacciare certezze su ciò che avverrà non è molto serio, da qualunque parte ciò venga fatto. Predire che ci saranno guerre in Europa sfiora, invece, il ridicolo. Sul piano istituzionale, in compenso, non c’è da inventarsi nulla. Si tratta solo di tornare a un assetto che è quello precedente l’entrata in vigore della moneta comune. Si tratta di tornare ad abitare a pieno titolo la casa che è davvero nostra, la casa della nostra Costituzione, da cui oggi siamo spinti fuori senza sapere bene – in questo caso sì – dove siamo diretti.

A chi sventola lo spauracchio della globalizzazione, del “siamo troppo piccoli per farcela da soli”, rispondiamo: queste sono parole slegate dai fatti, che servono solo a spaventare l’opinione pubblica e a tenerla inchiodata a uno status quo che non ha nulla di inevitabile. In realtà, proprio qui si cela l’arcanum imperii di quella cosa che chiamiamo confusamente “neoliberismo”. Mettere in questione la moneta unica non significherà forse sconfiggere il neoliberismo, ma senz’altro significa spuntarne le armi più insidiose: la paura e la rassegnazione. Queste armi servono, oggi, a sostenere la pretesa, portata avanti con fanatismo quasi religioso, di compiere la piena funzionalizzazione al mercato globale dello Stato, svuotandolo di fatto dei suoi contenuti politici democratici e solidaristici.

Noi dobbiamo uscire dalla paura. Occorre affrontare i problemi che abbiamo di fronte con serietà e pacatezza. Presentare all’opinione pubblica scenari apocalittici non aiuta nessuno, a parte coloro che sfruttano le debolezze della democrazia per i propri interessi privati. Ricordiamo peraltro che nessuna delle previsioni fin qui fatte dagli esponenti dello status quo si è rivelata corretta: nessun miglioramento economico, nessuna unione politica del Continente. Al contrario, crescenti difficoltà economiche e crescente litigiosità tra i paesi membri. Fino alla Brexit.

Non sarà certo la tecnocrazia rassicurante di Macron,  prodotto di laboratorio della finanza internazionale, a determinare un cambio di passo reale in Europa, in senso solidaristico. Al contrario, è solo riaprendo un concreto spazio politico per il conflitto sociale, affrontando a viso aperto le contraddizioni dell’eurozona e dell’UE, che i temi del lavoro e del Welfare possono essere riproposti ambiziosamente (come dimostra l’esempio di Corbyn).  Il suo vasto consenso presso i giovani, così come quello di Sanders in USA e Mélenchon in Francia, dimostra la necessità di ripartire dalla nuova questione sociale (lavoro povero e disoccupazione): in Europa, l’unico modo per farlo è dire la verità sulla matrice irriducibilmente ordoliberista dell’euro, sgombrando il terreno dai luoghi comuni dell’europeismo di maniera. Solo recuperando autonomia democratica allo Stato sarà possibile rilanciare, aggiornandole ai tempi, le conquiste legate al costituzionalismo sociale. Una prospettiva del genere, mettendo mano al tema delle diseguaglianze e degli squilibri,  non gioverebbe solo alla coesione nazionale, ma alla stessa cooperazione europea.

Siamo convinti che nel ceto politico, anche a sinistra,  ci siano personalità che condividono quanto scriviamo, e che tuttavia ritengono di non poterlo dire pubblicamente. Ma il problema non è solo del ceto politico. Il problema è anche, e in questa fase soprattutto, dei mezzi di informazione, che dovrebbero dare spazio a un ampio e pacato confronto su questi temi, rinunciando a linee editoriali preconcette e accantonando tabù che soffocano il dibattito pubblico. Solo così i politici più avveduti e responsabili potranno trovare il coraggio di venire allo scoperto, di dire ciò che realmente pensano, facendosi strada tra gli avventurieri, senza correre il rischio di essere travolti da anatemi liquidatori che, da qualunque parte arrivino, sono sempre un sintomo di analfabetismo democratico.

 

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