Cultura

Populismo e sinistra

28 Novembre 2016

Trattato alla stregua di una patologia della politica, il populismo gode oggi di una pessima reputazione presso la stampa mainstream e le formazioni politiche maggiormente radicate nelle istituzioni. Nel contesto italiano, in linea con la tendenza europea, anche i partiti che per autodefinizione si collocano nella parte sinistra dello spettro politico sono pressoché unanimi nella condanna. Per censurare le invettive di Beppe Grillo, ad esempio, ai leader progressisti italiani basta spesso definirlo “populista”: la parola reca con sè una connotazione peggiorativa tanto da rendere il suo utilizzo sufficiente senza dover ricorrere a ulteriori sofismi denigratori.

A seguire cercherò di persuadere il lettore del fatto che la sinistra debba invece prendere in seria considerazione il populismo, ma non prima di averne elaborato una definizione più accurata che ci permetta di renderlo uno strumento analiticamente e politicamente valido. Il maggior problema che si riscontra nell’uso comune del termine populismo radica infatti nel suo stiracchiamento concettuale. A cosa dovrebbe esattamente alludere la parola? Alcuni tendono a delineare dei distintivi tratti ideologici propri del termine, altri attribuiscono precise caratteristiche sociologiche ai gruppi su cui farebbe presa il populismo, altri ancora tracciano una morfologia psicologica dei seguaci di un esperimento politico populista. Ogni utilizzo fatto nei sensi appena indicati va incontro ad una valanga di eccezioni: in tal modo, l’ostinata allusione a un significato ideologico, sociologico o psicologico fisso rende la categoria del populismo pressoché inutile. Per sbrogliare la matassa, bisognerebbe piuttosto concepire il populismo come una forma di attribuzione di significato politico ad un progetto, in altre parole una pratica che è, essa stessa, costitutiva degli agenti sociali che la adottano.

Padre di questa concezione minimalista è il teorico politico argentino Ernesto Laclau, scomparso pochi mesi fa. Per Laclau, il populismo non definisce l’orientamento ideologico, ma è semplicemente un modo di costruzione della politica: in questo senso, si possono avere populismi di destra o di sinistra. In cosa consiste costruire la politica attraverso il populismo? Si tratta di effettuare una divisione dicotomica della società in due campi, da una parte il popolo, il soggetto universale, il ‘noi’, e dall’altra le elites, il ‘loro’. Il popolo tuttavia non è un datum sociologico, ma una creazione, il frutto di un’operazione discorsiva: in questo modo il popolo si costituisce ex post attraverso l’articolazione politica di diverse rivendicazioni sociali presenti in un dato momento nella società e che non trovano risposta dalle istituzioni.

A questa logica, ribattezzata anche equivalenziale da Laclau in quanto cerca di stabilire un’equivalenza, un’analogia tra i significanti articolati sulla base di un antagonismo, si accompagnano due processi fondamentali, quello della denominazione e quello dell’affetto. Il primo ha un effetto performativo: la definizione del campo popolare, così come del suo avversario, contribuisce alla loro costituzione, proprio perchè l’unità del popolo non poggia su un’infrastruttura metafisica positiva. L’affetto invece va inquadrato nella capacità di una domanda particolare di assumere il ruolo di rappresentazione dell’intera catena equivalenziale, quindi una domanda che, divenendo l’oggetto di un investimento affettivo radicale, riesce contemporaneamente ad alludere all’intero progetto di cambio proposto dall’esperimento populista in questione. Nell’Italia odierna, lo sdegno suscitato dalla corruzione e la richiesta di una classe politica più onesta possono sicuramente giocare questo ruolo.

Opposta alla logica equivalenziale è quella differenziale. Qui, le rivendicazioni sociali vengono tenute distante, appartate. Curiosamente, la sinistra italiana incarna la logica differenziale in modi diversi: la sinistra di governo tende a neutralizzare le rivendicazioni sociali in stile amministrativo, tecnocratico, impedendo la formazione di una identità popolare e annacquando in tal modo le prospettive di un cambio sociale degno di tal nome; mentre quella radicale è preoccupata, in stile post-moderno, a proteggere le prerogative dell’identity politics, ma soprattutto rifugge la questione del potere, nella speranza velleitaria che attraverso le resistenze quotidiane lo Stato venga soppiantato quasi naturalmente da un potere costituente. Un’altra sinistra ancora si mantiene ancorata alla centralità di certi significanti (classe, relazioni di produzione, falce e martello) ormai caduti in disuso; contrariamente, il populismo non può che esistere nel contingente.

Ma perché mai la sinistra dovrebbe guardare al populismo come un’alternativa percorribile? Il populismo, come è stato chiarito, non ha che a fare con la demagogia o le esagerazioni verbali, bensì con un processo di semplificazione dello spazio politico volto a facilitare le identificazioni. Questo avviene in virtù della possibilità di elevare a totalità, cioè di proiettare come interesse comune, una parzialità attorno a cui si congregano elementi eterogenei. Non a caso Laclau sviluppa esplicitamente il suo impianto teorico sulla scorta del concetto gramsciano di egemonia: la ‘guerra di posizione’ teorizzata dal comunista sardo non è altro che il tentativo di creazione di popolo a cui il teorico argentino fa riferimento. La sinistra italiana, estranea ai giochi egemonici in un caso o snaturata dal proprio vettore ideologico di riferimento in un altro, sembra invece ignorare le conclusioni di chi ha saputo intepretare al meglio gli insegnamenti del suo pensatore più fervido.

Pubblicato su Ecologiapolitica il 18/08/2014.

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