Cultura

Proposte di senso comune per il controllo democratico della rete

 

In occasione dell’ Edinburgh international television festival, il leader labour, Jeremy Corbyn, ha proposto l’istituzione di una British Digital Corporation (BDC), un organismo polivalente capace, da un lato, di erogare informazioni ed intrattenimento- tali da competere con i grandi colossi internazionali quali Netflix e Amazon- e, dall’altro, sia in grado di poter controllare il flusso di dati a fini pubblici e valorizzare la partecipazione democratica alle decisione pubbliche della BDC attraverso piattaforme on line. Come dichiarato dallo stesso Corbyn, “il settore pubblico non deve rimanere inerte mentre poche grandi big-co rastrellano i diritti digitali, gli asset ed in definitiva le nostre risorse”.

Secondo le intenzioni di Corbyn, le piattaforme in rete attraverso cui agisce la BDC dovrebbero anche concretizzare la partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni pubbliche e consentire l’espressione di un voto online da parte degli utenti non solo su questioni digitali, es. l’azione della BDC stessa, ma anche su molte altre tematiche di interesse pubblico (es. come debbano operare alcune banche regionali d’investimento).

La rete è diventata terreno di conquista dei nuovi big player (Facebook, Amazon, Google solo per citarne alcuni) fuori da ogni controllo istituzionale favoriti dal carattere sovranazionale della grande libertà del commercio. A titolo esemplificativo, il gruppo guidato da Mark Zuckerberg ha registrato una cresciuta di ricavi del 42% rispetto al secondo trimestre 2017, e nonostante abbia centrato il suo nuovo record -13,23 miliardi di dollari- ha deluso le aspettative degli analisti perché questi si attendevano 13,3 miliardi!

Ed i politici italiani cosa ne pensano? 

Questo tema non è minimamente presente nell’agenda politica. Nel contratto di governo giallo-verde poco e punto è riscontrabile al riguardo. Si ritrovano generiche affermazioni sulla razionalizzazione delle banche dati pubbliche, ed una generica introduzione del concetto di cittadinanza digitale dalla nascita, accompagnata dall’accesso gratuito a Internet. Vista, però, l’attualità del rinvigorito dibattito sull’eventuale ritorno alle nazionalizzazioni dei c.d. monopoli naturali- in questi giorni si sta parlando di autostrade- invece, riteniamo che il tema della e-democracy e della presenza del pubblico nella rete dovrebbe interessare i nostri politici. 

E’ risaputo, infatti, che le grandi corporation tecnologiche sfruttano i big data raccolti in rete facendo leva sulle ambiguità normative e sulle oggettive difficoltà di un controllo diffuso, al fine di monopolizzare il mercato digitale. Riescono, così, a produrre un ingiusto profitto dalla vendita dei dati relativi alla profilazione degli utenti, ovvero, registrando e aggregando tutti quei dati raccolti, non solo attraverso le ricerche attive effettuate online, ma anche grazie alle preferenze espresse – più o meno palesemente- dai fruitori della rete sulle piattaforme social, oltre a utilizzarne i caratteri somatici e biologici. La contropartita offerta ai navigatori è una selezione di banner pubblicitari ad hoc accompagnati da offerte promozionali mirate. 

I potenziali rischi non sono solo legati alla privacy degli utenti, perennemente osservati durante la navigazione, ma soprattutto il rispetto dei diritti di libertà dei cittadini stessi, minacciati da società in grado di operare influenze indebite sul piano politico e di discriminare con le loro categorizzazioni su quello sociale, operando al di fuori di ogni controllo ed a scapito del rispetto delle leggi. Il cuore del problema, comunque, è ravvisabile nella corretta individuazione e nella tutela di diritti digitali di cittadinanza e di partecipazione alla decisione pubblica, nella democratizzazione di internet in senso lato e, non ultimo, nel ruolo attivo dello Stato nel controllare, gestire e regolare il corretto utilizzo dei dati e delle reti.

Nello “spazio-non spazio” dei byte, si infrangono confini e si indeboliscono le sovranità statali. Una democratizzazione dello strumento internet non deve riguardare, però, solo il rapporto privatistico utenti-big co. L’evoluzione del diritto di libertà informatica si declina soprattutto nella dimensione sociale e politica dell’uomo; le tecnologie informatiche, infatti, possono essere utilizzate nei processi decisionali, permettere un maggiore controllo democratico ed anche facilitare iniziative dirette dei cittadini. Infatti, nella comunità “civic tech” sempre maggiore è il ricorso a piattaforme deliberative, referendum online, parlamentarie, fino ad arrivare a veri e propri partiti digitali.

In Italia, attraverso il c.d. Codice dell’amministrazione digitale, d. lgs. 82/2005, è stato posto un primo, ma importante impegno in capo ai soggetti pubblici di colmare la distanza tra cittadini e governanti. In questo quadro, il concetto di democrazia elettronica fa riferimento all’utilizzo delle tecnologie informatiche nelle diverse fasi del processo democratico al fine di promuovere il coinvolgimento nella sfera pubblica ed agevolare l’esercizio dei diritti civili e politici; precondizioni, però, sono il contrasto al digital divide e la contemporanea promozione dell’inclusione digitale.

Tra gli strumenti più comuni utilizzati in rete ritroviamo: newsletter, focus group, sondaggi, fino ad arrivare a quello più innovativo del voto elettronico, ideato- nelle migliori intenzioni- come strumento per snellire le procedure di espressione del suffragio attraverso riduzione dei tempi e l’abbattimento dei costi elettorali, contrastare eventuali errori o brogli elettorali e ridurre l’astensionismo. In concreto, l’automazione del procedimento elettorale può avvenire o al momento dello spoglio cartaceo delle schede, oppure attraverso il vero e proprio voto elettronico con terminali collegati ad internet o con votazioni offline. Esistono già alcune esperienze internazionali a riguardo: in Arizona, nel 2000, è stato introdotto il voto online lasciando libero l’elettore di votare  o da casa, o attraverso la scheda cartacea; mentre in Stati Uniti, Brasile e Belgio sono stati sperimentati con successo sistemi di votazione offline  in luoghi pubblici presidiati. Occorre rilevare, però, che non tutte le esperienze si sono dimostrate positive; in alcuni Stati che avevano inizialmente accolto soluzioni di voto online, quali Germania e Olanda, queste metodiche sono state abbandonate a causa delle riscontrate difficoltà tecniche e dei rischi collegati alla sicurezza. Anche in Italia abbiamo vissuto un momento di sperimentazione del voto elettronico (europee 2004, regionali 2005, politiche 2006), ma le denunce per brogli che ne sono seguite sono state numerose. 

Al di là delle eventuali problematiche di tipo tecnico-operativo, è innegabile un potenziale contrasto con il principio di personalità tratteggiato dall’articolo 48, comma 2°, della nostra Carta Costituzionale che esige che il voto debba essere esercitato personalmente dal titolare, e quindi non possa essere né veduto né delegato. Il voto elettronico, al momento, non sembra in grado di fornire le tutele adeguate al riguardo. In aggiunta, come già evidenziato da Paolo Gerbaudo, qualunque piattaforma online non è mai “piatta” ma risponde sempre a dinamiche di potere e di leadership. 

Il Codice dell’amministrazione digitale ha rappresentato un piccolo, ma importante, passo per la regolamentazione della democrazia elettronica che non deve rimanere isolato. E’ dimostrato, infatti, che la società informatica, lasciata all’autoregolamentazione, porta alla concentrazione del potere nelle mani di pochi potenti soggetti economici detentori di dati e, conseguentemente, detentori di conoscenza, con ripercussioni importanti anche per Stati che sono costretti a ricorrervi. 

La domanda di fondo, quindi è: quale nuovo ordinamento digitale è auspicabile? Come tutelare, oltre alla privacy, i diritti digitali dei cittadini? La proposta di Corbyn potrebbe essere attuata anche in Italia attraverso la creazione di una IDC? Nonostante il disinteresse, fino ad oggi, mostrato, riteniamo che si debba rispondere affermativamente. 

Senso Comune, così come espresso nel suo Libretto Amaranto, intende sostenere e promuovere la capacità dello Stato d’intervenire e regolare le attività economiche e i mercati digitali devono essere inclusi in questa cornice. Per questo motivo Senso Comune propone misure articolate nel tempo per il raggiungimento di tale obiettivo.

Nel breve periodo, al fine d’interrompere l’attuale monopolio, Senso Comune propone: 1) obblighi di collettivizzazione dei dati, soprattutto per quelli di maggiore interesse pubblico; 2) sostegno pubblico a forme d’imprese cooperative che forniscono servizi digitali rispettosi dei diritti e delle libertà dei cittadini. Nel lungo periodo, Senso Comune propone: 1)  pieno controllo pubblico delle infrastrutture tecnologiche e dei dati; 2) controllo sul commercio dei dati con la pubblica autorità che si pone come mediatrice tra coloro che vogliono utilizzare i dati a fini di lucro e i cittadini, produttori di dati; 3) tassazione sui guadagni realizzati in Italia delle grandi aziende che operano nel web (pubblicità, transazioni B2C e i forniture di beni) attraverso piattaforme digitali 4) libero utilizzo dei dati per fini non lucrativi (open data pubblici e privati), nel rispetto dei diritti dei cittadini.

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