Economia | Paese

La crisi e il coronavirus: cambiare rotta, ma davvero

12 Marzo 2020

L’emergenza sanitaria indotta dal propagarsi del coronavirus si sta traducendo in un’emergenza economica, con pesanti ricadute su di un tessuto produttivo e occupazionale quale quello italiano che già mostrava la corda nelle previsioni degli addetti ai lavori. “Bisogna ripartire!”, si sente dire da più parti. Ma in che direzione ripartire dovrebbe essere oggetto di battaglia politica. La duplice emergenza mette il Paese di fronte ad un bivio, la politica è come sempre questione di scelte. Se il governo si porrà in continuità con le politiche degli ultimi anni o se, al contrario, lo shock di queste settimane sarà sfruttato per una inversione di rotta, lo vedremo a breve. Al momento il governo ha stanziato 25 miliardi in deficit per l’emergenza, ma se questo ulteriore indebitamento sarà finalizzato all’erogazione di bonus fiscali alle imprese – come da più parti richiesto e come da anni praticato da tutti i governi – la sbandierata inversione di rotta avrà effetti probabilmente nulli, se non negativi. Scegliere vuol dire anche scegliere tra gli sgravi fiscali ai soliti noti e un “reddito di quarantena” in alternativa alle ferie forzate dei lavoratori dipendenti e a sostegno dei redditi dei piccoli autonomi.

Certo, come opporsi ad uno slancio solidaristico verso le categorie e le aree del Paese maggiormente colpite dalla crisi? Ma, come è buona regola per ogni lemma del vocabolario della neolingua liberista, bisogna sempre guardare dietro le parole per spiegare il loro reale significato. Sgravio fiscale, infatti, significa togliere dai salari differiti e dai servizi a vantaggio di lavoratori e disoccupati per dare al capitale. Le sorti del Paese sono legate unicamente al buon cuore, o, ben che vada, alla lungimiranza, del sistema delle imprese private. Ciò che va bene per le imprese va bene per l’Italia. Ma è stato così negli ultimi anni?

In un mercato iper-deregolamentato i pubblici poteri sono sempre sotto scacco, e si è scatenata una guerra economica tra gli Stati per attrarre (o non far fuggire) capitali – data l’illimitata libertà di movimento per i capitali all’interno della UE l’elusione fiscale è sostanzialmente legale. Nel quadriennio 2015-2018 il sistema delle imprese ha goduto di sgravi fiscali legati all’assunzione di manodopera per 72 miliardi. Ne hanno beneficiato quelle stesse imprese che hanno avuto in regalo negli ultimi decenni una forte contrazione dei diritti dei lavoratori (nel più importante dei provvedimenti adottati in questo senso, il job act, i due aspetti di detassazione e di attacco ai diritti erano esplicitamente legati); un abbassamento di circa 10 punti percentuali della tassazione sui profitti; una riforma delle aliquote nella tassazione sulle persone fisiche che ha privilegiato i loro top manager a scapito dei lavoratori, mentre in spregio alla strombazzata ideologia meritocratica venivano azzerate le tasse di successione anche per le eredità multimiliardarie. Tutto ciò ha avuto un impatto devastante sui conti pubblici e, conseguentemente, sui servizi di Welfare erogati dallo Stato, come si vede chiaramente in questi giorni di emergenza e di potenziale penuria di posti letto negli ospedali pubblici.

Se le chiavi del Paese sono state affidate al sistema delle imprese, questo ha ricambiato con ricadute occupazionali nulle sia in termini quantitativi (la disoccupazione rimane altissima) che qualitativi (cresce solo l’occupazione precaria). Allo stesso tempo, il picco di licenziamenti registrato in coincidenza della fine degli sgravi ha lasciato inalterato il numero degli occupati per impianto. Né passi in avanti si sono compiuti in termini di produzione di valore aggiunto dall’apparato produttivo, inserito in via subordinata nelle catene continentali del valore a trazione tedesca. E difatti, prima ancora che l’emergenza sanitaria accelerasse le ragioni della crisi, si era già assistito nel corso del 2019 ad una caduta degli investimenti, figlia a sua volta dello stesso fenomeno prodottosi in Germania.

Insomma il coronavirus non è l’origine di questa nuova crisi, ma un macigno su di un percorso già accidentato. Se oggi le conseguenze nefaste dell’aggravamento delle condizioni economiche del Paese colpiscono proprio quel sistema che si regge su nanismo industriale e precarietà dell’occupazione e che è fiorito attorno alla scelta di affidare le leve dello sviluppo all’arma spuntata degli sgravi fiscali, sarebbe un errore esiziale affidare il rimedio della crisi alla medesima ricetta che l’ha prodotta.

Se per uscire dalla crisi si rende davvero necessario un cambiamento di rotta, ciò implica una ripresa degli investimenti diretti da parte dello Stato nei settori strategici e nei servizi ai cittadini, una vera rivoluzione fiscale che riscopra il valore (peraltro prescritto dalla Costituzione) della progressività delle imposte, un ritorno alla stagione dei diritti dei lavoratori che sono i più esposti ai venti della crisi. Tre punti fondamentali per il Paese, e tre punti fondamentali per una forza progressista che volesse provare a contendere ad una destra sempre più minacciosa e pericolosa l’egemonia nella gestione della crisi.

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