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La disoccupazione tecnologica non è una fatalità

12 Febbraio 2020

Qualche tempo fa è approdato online il sito Will Robots Take My Jobs. Per ogni lavoro inserito, premendo invio, una percentuale indica la possibilità che quel lavoro venga automatizzato. Vi é il 56% di probabilità che un robot sostituisca il lavoro di un assistente universitario. Il 95% che sostituisca una cameriera (o un cameriere). Il 17% una maestra (o un maestro) delle scuole medie. Il 13% un ballerino o una ballerina.

La cosiddetta ansia tecnologica (technological anxiety), la paura di perdere il lavoro a causa dell’introduzione di robot e algoritmi ha generato uno stato di allarme in ampie fasce della popolazione. Secondo alcuni studiosi americani avremo una diminuzione del 50% dei posti di lavoro a causa dell’automazione durante questo decennio.  Altri ricercatori, adottando una metodologia che considera le singole mansioni anziché l’occupazione nella sua interezza, ridimensionano la percentuale a un meno preoccupante 10%. I titoli dei giornali hanno contribuito all’allarmismo, “Robot intelligenti potrebbero presto rubarti il lavoro”, ha titolato la CNN, “I robot dai colletti bianchi stanno arrivando”, il Wall Street Journal, “I robot prenderanno il tuo lavoro? Alla fine, lo faranno”, il New York Times.

Mentre in passato a temere le conseguenze occupazionali dell’automazione erano gli operai, oggi sono i colletti bianchi, la classe media degli impiegati e liberi professionisti a temere le conseguenze dell’automazione. La nuova ondata di automazione che sta prendendo corpo è diversa dalle precedenti perché minaccia di colpire non solo mansioni manuali, ma anche mansioni intellettuali, come quelle di avvocati, medici, banchieri, contabili, commercialisti, tecnici di laboratorio. Già adesso diverse grandi imprese legali usano algoritmi  e programmi di intelligenza artificiale per analizzare enormi quantità di informazione. In futuro questi sistemi potrebbero diventare così sofisticati da permettere a queste compagnie di licenziare personale che copre gli stessi ruoli. Insomma, nessuno si sente al riparo dalle conseguenze della disoccupazione tecnologica.

Il lavoro non scompare, si precarizza

Certo, alcuni allarmismi sulla disoccupazione tecnologica sembrano esagerati. Sostituire un lavoratore non è affatto facile, data la complessità e diversità delle mansioni svolte dai lavoratori. Anche solo parlare di una sostituzione diretta di un posto di lavoro a causa dell’automazione è problematico. Perché spesso l’automazione ha un carattere complementare, di moltiplicazione della produttività per ora lavorata, piuttosto che di sostituzione diretta di una mansione. Le nuove tecnologie sono asset specific, cioè tendono a essere poco riutilizzabili in altri processi. E sono estremamente costose, quindi sono accessibili solo a imprese con grosse capacità finanziarie. Inoltre in molti campi, si pensi al settore dell’ospitalità o delle ditte di pulizia, oggigiorno i salari sono così bassi che non c’è un forte incentivo alla loro automazione.

Secondo l’economista inglese John Maynard Keynes la disoccupazione tecnologica rende i lavoratori ridondanti solo nel breve periodo

Inoltre bisogna tenere in conto che l’economia è un sistema flessibile in cui la diminuzione di posti di lavoro in un settore può essere accompagnata dalla creazione di posti di lavoro in altri settori. Come sosteneva il celebre economista inglese John Maynard Keynes, la disoccupazione tecnologica rende i lavoratori ridondanti solo nel breve periodo. Basti pensare al fatto che a seguito della prima rivoluzione dell’automazione negli anni ‘60 e ‘70, l’occupazione in molti paesi è rimasta sugli stessi livelli. Piuttosto che preoccuparci, o rallegrarci, della “fine del lavoro” come risultato dell’introduzione delle nuove tecnologie, bisognerebbe parlare delle conseguenze che queste avranno sulle condizioni di lavoro e sui salari dei lavoratori che continueranno a essere tali. Le transizioni tecnologiche sono caratterizzate da momentanei squilibri occupazionali che possono impoverire i lavoratori e precarizzare le condizioni di lavoro. Il rischio è che nel breve periodo, le diseguaglianze aumentino mettendo a rischio il contratto sociale tra istituzioni e cittadini.  È quello che si vede chiaramente con i fattorini della “gig economy”, costretti al lavoro a chiamata a salari miseri. Un destino che molti lavoratori in altri settori vorrebbero volentieri evitare. Come fermare questi effetti negativi dell’automazione?

Il tuo padrone non è un algoritmo

Spesso di fronte a questi cambiamenti siamo colti da un senso di fatalità. La percezione è che non si abbia a che fare con persone in carne ed ossa ma con algoritmi impersonali e incontrollabili. Questa percezione è espressa nella frase “il tuo padrone è un algoritmo” come sostenuto rispetto a aziende di piattaforme come Uber, Deliveroo e Foodora. L’ansia tecnologica assumerebbe altri connotati se i responsabili non fossero visualizzati come macchine che intervengono nella nostra esistenza come un deus ex machina. Non c’è nulla di deterministico. I robot non sono entità autonome che decidono quando intervenire e rubare il lavoro. Non è vero che il tuo padrone è un algoritmo. Piuttosto il tuo padrone è il tuo padrone che usa un algoritmo. La decisione di adottare un robot al posto di un lavoratore è una decisione degli imprenditori alla ricerca di profitto. “Robots are not coming for your work, management is” (I robots non verranno a rubarti il lavoro, il management lo farà), come ha sostenuto Brian Merchant  in un interessante articolo sul tema.

Non è vero che il tuo padrone è un algoritmo.
Piuttosto il tuo padrone è il tuo padrone che usa un algoritmo.

È la politica che deve impedire che questo imperativo del profitto abbia il sopravvento sugli interessi dei lavoratori. Non bisogna accettare l’automazione come una fatalità, ma governarla. Siamo noi che dobbiamo servirci delle macchine, non viceversa. Come spiega l’economista Ha Joon Chang in una video-pillola che è girata molto in rete l’automazione è una scelta politica. Dipende dalla politica economica di un paese quali saranno le conseguenze occupazionali e sociali della nuova ondata di automazione. Basta guardare al caso della Corea del Sud che è il paese con il più alto numero di robot per abitanti, eppure è il paese dove il rischio di sostituzione dei lavoratori è tra i più bassi (la Slovacchia al contrario ha il rischio più alto di sostituzione). Questi diversi tassi di rischio sono frutto di politiche tecnologiche diverse. La disoccupazione tecnologica non è dunque un destino, ma una scelta politica. Così come è una scelta politica evitarla.

La sfida della politica tecnologica

A dispetto delle profezie tecno-utopiste o tecno-distopiche, sulla fine del lavoro come risultato della seconda rivoluzione dell’automazione è chiaro che il lavoro non scomparirà e continuerà a essere necessario alla società. Il problema piuttosto è che le imprese approfittino dell’innovazione tecnologica per mettere i lavoratori in una  condizione ancora più precaria e comprimere i salari. Sindacati e forze politiche devono lottare per “un’automazione protetta”, o “un’automazione sociale” per usare termini in voga nei paesi nordici, per descrivere politiche di gestione tecnologica finalizzate a evitare l’aumento delle diseguaglianze. È compito della politica farsi carico di quei lavoratori che vengono marginalizzati e preoccuparsi di un reinserimento sociale e lavorativo, anche nel breve periodo.

Sindacati e forze politiche devono lottare per “un’automazione protetta”

La politica tecnologica è un’enorme sfida che definirà il futuro delle nostre società. Questa sfida non richiede solo la produzione e acquisto di macchinari, ma anche politiche educative, corsi di aggiornamento, la garanzia di salari equi, e nuove forme di welfare per garantire che nessuno venga lasciato indietro. In fin dei conti tutto dipende da chi ha la forza di controllare i processi e chi “programma” i robot e gli algoritmi. Se saranno esclusivamente gli imprenditori con i loro complessi algoritmi disegnati per frammentare e precarizzare il lavoro, a decidere l’uso di queste tecnologie siamo destinati a un futuro del lavoro ancora peggiore del presente. Se invece i cittadini riprendono il controllo della politica tecnologica abbiamo l’opportunità di usare quest’ondata di innovazione tecnologica per migliorare le nostre condizioni di vita e di lavoro.


Guendalina Anzolin è una ricercatrice che sta svolgendo un dottorato in economia tra l’Università di Urbino e la SOAS di Londra

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