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La Brexit e il futuro dell’Unione europea

28 Febbraio 2020

Il progetto dell’Unione europea, per la prima volta nella sua storia dai tempi della creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951 e della Comunità economica europea nel 1957, si è fatto più piccolo e non più grande. Se fino ad oggi questo progetto si è contraddistinto per l’integrazioni di nuovi Stati e non per l’abbandono di quelli già appartenenti, l’abbandono della UE da parte della Gran Bretagna ha cambiato questa realtà. Si tratta di un’eccezione o di un’inversione di tendenza? Se crediamo che si tratti di un’eccezione situiamo pure l’origine del problema, come in effetti si è fatto finora, in Gran Bretagna. Allora si possono affermare cose come che coloro che hanno votato per la Brexit lo hanno fatto fondamentalmente e unicamente sulla scia di una manipolazione di massa o si spiega che il problema sono i referendum che, a quanto si dice, cercano di dare una risposta facile a una situazione complessa (un argomento che portato alle estreme conseguenze condurrebbe all’eliminazione di qualsiasi elezione a suffragio universale). Se, al contrario, pensiamo che ci possiamo trovare dinanzi ad una inversione di tendenza – cioè che la Brexit è solo il possibile prologo della storia futura dell’Unione e non l’epilogo della storia della Gran Bretagna – allora dobbiamo guardare all’attuale Unione europea come a un problema e non solo come alla soluzione di tutto. Infatti ciò che definisce un progetto non è come agisce in epoca di “normalità”, qualora questa situazione si sia mai verificata, ma come reagisce di fronte alla propria crisi.

Il risultato del referendum della Brexit del 2016 non ha prodotto nessuna riflessione importante da parte delle alte cariche di Bruxelles o di alcun presidente appartenente ad un qualche Stato membro. Si sentiva un unico messaggio: la negoziazione sarà dura e non faciliteremo le cose. Uno dei paesi della coalizione vincitrice della seconda guerra mondiale aveva dichiarato sostanzialmente che ormai non credeva nel progetto rappresentato dall’Unione e l’unica riflessione che questo dato di fatto sembrava suscitare era il ben noto ed edificante “sudare sangue”. Suderanno sangue per potersene andare in buone condizioni, suderanno sangue perché fuori dall’Unione ciò che verrà sarà il collasso della Gran Bretagna, suderanno sangue perché soffriranno una crisi economica di primo livello. Ora se ne sono andati e al momento che si sappia la Gran Bretagna continua al suo posto: né collassi, né recessione economica galoppante, ed è ancora da vedere se alla fine non sarà la stessa Unione europea a cercare accordi commerciali più benevoli di quelli che aveva firmato. Quando nella bilancia delle bugie si misureranno quelle dei sostenitori della Brexit, e sì che ce ne sono state, bisognerà porre sull’altro piatto tutto ciò che hanno ripetuto fino alla sazietà durante anni coloro che condannavano la Brexit come decisione prodotto di una massiva “dissonanza cognitiva” (una posizione che è diventata di moda per (s)qualificare qualsiasi posizione politica alla quale si vuol negare legittimità). Ma il problema in realtà non è ciò che farà o smetterà di fare la Gran Bretagna – anche se ciò che succederà là d’ora in avanti può diventare un faro per altri paesi dell’Unione – ma ciò che farà o smetterà di fare la UE dopo la Brexit.

Nel periodo compreso tra il 1993 e il 1998, subito dopo la firma del trattato di Maastricht che dava alla luce la nuova Unione europea, il suo bilancio comune non rappresentava più dell’1,28% del PIL dell’insieme dell’Unione. Il progetto europeo come spazio di intervento e regolazione nelle legislazioni statali è molto cresciuto in questi anni, ancorché ciò non sia avvenuto senza problemi di legittimità democratica a partire dalla mancanza di trasparenza dei luoghi reali in cui venivano prese le decisioni. Difatti la maggioranza dei trattati europei che sono stati sottoposti a referendum in Paesi come la Francia, l’Olanda o l’Irlanda sono stati persi, per cui non è strano che il progetto dell’UE abbia una certa allergia nei confronti dei referendum. Allo stesso tempo, comunque sia avvenuta questa crescita della presenza della UE nelle nostre vite, ciò non è stato accompagnato da una crescita del suo bilancio comune. Se nel pieno della crisi economica del 2008 non si è riusciti neppure a mutualizzare i debiti sovrani, nel bel mezzo della crisi il bilancio comune della UE era inferiore a quello degli anni Novanta, e a partire dal 2015 è sceso all’1,16% del PIL. Ora, con la Brexit, nella misura in cui la Gran Bretagna era un contribuente netto della UE, si prevede di ridurlo ancor più in termini assoluti e relativi fino ad arrivare solo all’1%. Le principali partite coinvolte nel taglio di bilancio sarebbero quelle riferite alla politica agricola e ai fondi di coesione regionale. E nel caso della Spagna, un Paese – come la Catalogna – di un europeismo “contrastato” (qui il referendum sulla fallita Costituzione europea vinse), si passerebbe per la prima volta dalla condizione di recettore a quella di contribuente netto del bilancio dell’Unione. Bisognerà vedere come ciò influenzerà l’europeismo spagnolo, tenendo oltretutto di conto che i tagli riguarderanno partite che sono state essenziali per il suo sviluppo, ma la sensazione globale è che se con la Brexit il progetto dell’Unione è entrato in crisi, i suoi principali responsabili hanno deciso che la migliore soluzione altro non era se non la cicuta.

È probabile che i tagli al bilancio saranno accompagnati da un allentamento dei vincoli relativi agli obiettivi di deficit nel bilancio dei singoli stati come misura di compensazione, ma ciò genererà maggior deficit, con una Banca centrale europea ossessionata nell’evitare una inflazione più immaginata che reale e senza sovranità monetaria, cosa che fa trasparire future tensioni. La parola d’ordine con la quale ha vinto la Brexit in Gran Bretagna è stata Let’s take back control [recuperiamo il controllo] ed era una buona parola d’ordine. Denigrata posteriormente e qualificata come reazionaria e come un tentativo di rinchiudersi nella sovranità nazionale in un mondo globalizzato, in realtà questo è proprio ciò che aveva promesso il progetto dell’Unione europea: un maggiore controllo sui nostri modelli economici e sociali in un mondo globalizzato. È dal fallimento di questa premessa che in realtà sorge la Brexit, o come minimo ciò è stato percepito da una parte degli elettori britannici.

Sono in arrivo anni critici per il progetto europeo e l’europeismo, chi si nega a iniziare questi dibattiti – nei fatti, condannandoli – può servire per legittimare misure politiche, ma per poco tempo ancora. I dibattiti e le domande che non si vogliono far propri troveranno delle risposte in altri indirizzi e latitudini. E al momento ciò ha un nome: Vox [il partito della destra radicale spagnola n.d.r.]

Xavier Domènech insegna storia contemporanea all’Universitat Autònoma de Barcelona. È stato fondatore dei Comuns e segretario di Podemos in Catalogna.

Da “Ara”, 25/02/2020 Traduzione a cura di Tommaso Nencioni

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