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La France Insoumise e noi: affinità e divergenze

28 Aprile 2017

Dell’esperienza della France Insoumise alle ultime elezioni presidenziali francesi si parla molto, e con buone ragioni, anche in Italia come esempio positivo. Avendo avuto qualche occasione di partecipare in prima persona all’elaborazione partecipativa del programma e poi alla campagna militante, conservo un ottimo ricordo di tale esperienza e della capacità di mobilitazione popolare da essa suscitata. Tuttavia, nell’entusiasmo di molti commentatori italiani di orientamento progressista, non sempre si riscontra il distacco necessario per comprenderne gli insegnamenti più profondi, con il rischio di fermarsi a una superficie che ben poco si presta alla trasposizione. Occorre fare attenzione allora a non cadere nell’errore dell’imitazione servile, importanti risultando le differenze tra i due contesti politici e sociali, a partire dal diverso sentimento d’identità nazionale rispetto a quello d’identità locale (al netto della più consistente immigrazione esterna, spostamenti continui degli autoctoni stessi per ragioni lavorative sono in Francia molto più diffusi, spesso senza mantenere legami intensi con il luogo d’origine) e dal diverso rapporto tra religione e politica e società.

La France Insoumise ha saputo raccogliere un desiderio di cambiamento intorno al pilastro di un patriottismo progressista, sintesi ideale del portato di un giacobinismo radicale e di quello più recente del movimento socialcomunista, concepito in una certa continuità con il primo, cumulativamente contrapposti al neoliberismo antipatriottico e atlantista degli ultimi anni. Questo modello non è immediatamente trasponibile in Italia, il cui immaginario collettivo presenta punti di contatto solo parziali con una simile visione (invece, una buona parte del programma sociale di riforme radicali potrebbe essere fonte d’ispirazione senza grandi modifiche anche per un programma minimo di governo di un movimento populista democratico in Italia).

In particolare, penso che la prima difficoltà con cui fare i conti sia la mancanza in Italia di un “mito” progressista unificatore a cui richiamarsi con una certa facilità: la Resistenza antifascista come fenomeno di massa è fenomeno sostanzialmente del centro-nord, con eccezioni episodiche; l’Unità d’Italia, per come si è realizzata, si è realizzata senza (o contro!) le masse e persino la percezione del personaggio di Garibaldi al sud è oramai tendenzialmente negativa. Solo parzialmente diverso è il discorso per la Costituzione repubblicana: è stata importante, nel 2006 e nel 2016, la sua difesa da involuzioni paternalistiche velate dalla spiccata vocazione al governo diretto del capitale finanziario transnazionale, ma il terreno di tali battaglie ne ha fatto per forza di cose uno scontro difensivo senza prospettive di avanzamento del fronte. D’altronde, la vigenza del testo costituzionale non è riuscita a ostacolare seriamente l’ultimo ventennio di produzione normativa improntata al più spinto neoliberismo. La Costituzione deve allora sicuramente entrare come elemento costitutivo nel discorso e nell’immaginario di un populismo progressista e democratico, ma a condizione di avere il coraggio di raccogliere la sfida della prospettiva di un suo cambiamento e aprire (e contrapporre alla retorica del pensiero unico attualmente dominante) un dibattito sulla possibilità di una sua revisione in senso sociale: introduzione del diritto all’abitare, rafforzamento di diritto al lavoro, vocazione alla pace e in generale dell’iniziativa economica e della proprietà pubbliche, inserimento di percentuali minime di PIL, non rivedibili in ribasso, destinate a istruzione, sanità, ricerca e politiche sociali, affermazione in Costituzione della piena pubblicità del sistema sanitario e totale gratuità delle cure mediche.

Sul piano dell’immaginario, pertanto, il “mito” progressista risulta più difficile da costruire, in quanto difficilmente può associarsi a un unico specifico tema portante. Penso allora che l’elemento di unificazione vada colto nella suggestione della “rottura”, parola d’ordine sottesa a tutta la retorica della rottamazione tanto in voga negli ultimi anni, ma finora riduttivamente indirizzata al solo ricambio dei volti della politica o razzisticamente rivolta all’allontanamento di presunti estranei dalla società (gli immigrati) per ritrovare la sua coesione. La grande sfida è riempire proprio questa suggestione della rottura di contenuti progressisti – tali da rimettere al centro della dialettica politica lo scontro tra l'”alto” e il “basso” – improntando e impregnando di questo approccio una rosa di temi, in gran parte patrimonio storico del movimento operaio e su cui il senso comune è permeabile a proposte progressiste: rottura dei Trattati europei, per recuperare una sovranità economica e sociale (sviluppare una retorica opposta all'”Europa ce lo chiede”); aumento della tassazione su grandi redditi e capitali, specialmente di origine finanziaria, con l’introduzione di controlli sui movimenti di capitali; lotta all’evasione e all’elusione fiscale; lotta all’intreccio tra politica, affari e crimine organizzato; investimento in sanità, istruzione e ricerca; eliminazione del precariato e dell’alternanza scuola-lavoro; introduzione di un salario minimo legale, soggetto a revisione automatica in presenza d’inflazione; riduzione dell’orario di lavoro a parità (almeno) di salario; nazionalizzazione di banche e grandi imprese e ripubblicizzazione dei servizi d’interesse generale locali e nazionali (una proposta forte a tal proposito sarebbe l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle grandi privatizzazioni degli anni ’90 e 2000, per fare chiarezza sulla svendita di asset decisivi del patrimonio nazionale!); intervento economico dello Stato per riassorbire la disoccupazione e promuovere un uniforme sviluppo economico del Paese; (re)introduzione di una programmazione (ecologica) dell’economia a livello nazionale; introduzione di forme di democrazia e sovranità gestionale dei lavoratori nell’impresa che li impiega; politica estera di pace e riposizionamento geopolitico tra i Paesi non allineati; rottura con lo Stato profondo delle trame e della strategia della tensione, a partire da una desecretazione totale degli atti su stragi ed eversione; democratizzazione delle forze armate e di polizia.

Sul piano della proposta politica, penso che esistano nella specificità italiana alcuni elementi strutturali di cui tener conto e da valorizzare, la cui comprensione profonda può essere la chiave per la riuscita di un progetto di populismo progressista:

1) le identità locali, sia cittadine sia della provincia profonda, alle cui istanze di sopravvivenza e valorizzazione occorre cercare di offrire risposte definite, alternative a quelle semplicistiche delle destre razziste: per esempio, valorizzazione culturale delle tradizioni e dialetti locali; ramificazione del tessuto produttivo e dei luoghi d’istruzione superiore nel territorio del Paese, per non rendere una scelta obbligata l’emigrazione nei grandi centri industriali italiani o all’estero; investimento nella creazione di luoghi di aggregazione decentrati anche nei piccoli centri abitati; recupero e investimento nella diversificazione del patrimonio locale di biodiversità zootecnica e agraria.

2) il rapporto tra società e religione, con un approccio inclusivo verso le masse cristiane, con cui cercare convergenze soprattutto sulla questione sociale, anche rapportandosi con le punte più progressiste dell’associazionismo cattolico.

Sollecito conclusivamente a guardare con particolare attenzione allo sforzo, che sembra in atto, di strutturazione dalla sola Napoli a livello nazionale del movimento DeMa: con tutti i suoi attuali (e comprensibili) limiti di localismo e di carenza programmatica generale, esso potrebbe rivestire un ruolo di potenziale interprete in Italia di un discorso di populismo progressista e democratico, se saprà dotarsi di un corpo dirigente e militante in grado di indirizzarlo adeguatamente, di un’elaborazione politica all’altezza dei compiti e di una costruzione diffusa e partecipativa dell’impianto programmatico, senza precipitazioni elettoralistiche votate al fallimento perenne. In definitiva, la capacità di decollare anche in Italia, a partire dalla sua realtà e dalle sue contraddizioni concrete, di una tendenza politica in grado di mettere in discussione radicale lo stato di cose presente può nascere soltanto dalla crescita numerica e qualitativa, dal procedere cosciente per tentativi ed errori e dalla sintesi avanzata di quei percorsi di sperimentazione locale e di elaborazione teorica che si stanno formando.

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