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Se i soldi per uscire dalla crisi alimentano la crisi

29 Aprile 2019

È noto come sia sempre crescente l’indebitamento delle aziende nel mondo, un fenomeno che rappresenta un buon indice della forza del processo di finanziarizzazione, secondo un recente rapporto OECD che mostra come i prestiti alle imprese siano passati da una media di 864 miliardi di dollari annui pre-crisi a 1700 miliardi annui nella decade successiva. Un recente articolo di Eric Toussaint, portavoce della rete CADTM ci chiarisce cosa è stato fatto di tutto questo denaro. Che mostra perché, come precedentemente argomentato, l’indebitamento non è più funzionale ad un processo produttivo (magari ai suoi inizi) ma diventa elemento permanente e strutturale.

Le imprese ricomprano sul mercato le proprie azioni. Ciò consente di farne crescere il prezzo in borsa grazie ad una domanda artificiale, così remunerando maggiormente gli azionisti (che incassano pagando meno tasse: i soldi che “entrano” come acquisto di azioni sono di solito tassati di meno rispetto ai profitti derivanti da altri modi di fare profitto). Il fenomeno ha assunto dimensioni impensabili: si calcola che tale pratica (nota come “buybeck”) negli USA arrivi a 3500 miliardi negli ultimi 10 anni nei soli USA. Tanto da guadagnare le attenzioni di Bernie Sanders (che ha fatto delle proposte di regolamentazione più stringenti) quando – a sorpresa – dell’ultraliberista senatore repubblicano Marco Rubio.

Le imprese si indebitano per prestare ad altre imprese, in specie prodotti finanziari o obbligazioni (o titoli di Stato). Perché il gioco valga la candela naturalmente occorre che il tasso a cui si presta sia superiore a quello cui ci si indebita (indebitandosi al 2% e prestando al 6% si lucra un 4% pre esempio); e le aziende in crisi golose di liquidità rapida offrono ottime condizioni. Solo che se queste falliscono anche il prestatore entra in crisi, amplificando le possibilità di drammatici crolli a catena e fragilizzando il sistema. Inoltre le obbligazioni di altre imprese possono essere rivendute all’occorrenza; ma a che prezzo? A quello di mercato. Che in caso di crisi inevitabilmente crolla, dato che nessuno vuole trovarsi con carta straccia in mano. Data la complessità del gioco che presenta rischi mortali, una quota crescente di risorse viene dirottata sui settori finanziari interni o a società di consulenza. Le grandi imprese diventano sempre più scatole vuole – sul piano della produzione materiale – intente a dirigere flussi di entrata e uscita.

Le politiche di espansione monetaria di tutte le maggiori Banche centrali sono state funzionali a tale processo offrendo cascate di liquidità a prezzi molto bassi, i quali, piuttosto che arrivare ad un processo di sviluppo conforme ai bisogni delle classi lavoratrici, hanno nutrito le dinamiche della finanziarizzazione. In Ue procede senza che venga sollevato alcun dibattito sulla creazione della Unione del mercato dei capitali: la loro circolazione già è libera ma la vendita/acquisto di obbligazioni e titoli è ancora troppo limitata secondo i padroni del vapore in salsa finanziaria, specialmente per le piccole-medie imprese. Se nel dibattito della campagna elettorale per le elezioni per il Parlamento europeo qualcuno lo ricordasse sollevando un minimo di dibattito non sarebbe un male.

Da “il manifesto”, 27. 4. 2019.

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