Cultura | Teoria

Dall’occupazione all’occupabilità. La vita messa a lavoro

23 Luglio 2019

Per tornare a parlare di piena occupazione oggi, non basta porre semplicemente il tema o suggerire soluzioni, per quanto effettivamente concrete e congeniali possano essere. Occorre smontare la «grande narrazione» neoliberale che si è tanto più imposta quanto più è stata in grado di presentarsi come descrizione neutra e neutrale dell’esistente, mettendo all’angolo qualunque visione contraria, ostile o semplicemente critica, come discorso ideologico, obsoleto e avverso al progresso e alla modernizzazione. Non è di sola ideologia, tuttavia, che è opportuno parlare quando si affronta il neoliberalismo, ma di una vera e propria razionalità normativa che si impone come sistema di normalizzazione in grado di imporre in ogni ambito della vita individuale e collettiva la norma numero uno del mercato: la concorrenza. 

Due sono i principali dispositivi concettuali che occorre smontare: da un lato, la convinzione che debba essere il mercato a creare lavoro e non lo Stato; dall’altro – e qui si trova l’elemento decisivo e discriminante che è profondamente intrecciato al primo in un rapporto di quasi «surdeterminazione» – l’idea che il lavoro sia qualcosa che gravi sulle sole responsabilità dell’individuo, al punto che la parola “occupazione” è stata sostituita in tutti i documenti ad essa relativi con il termine «occupabilità» (employability). È l’individuo a doversi rendere «occupabile», è l’individuo a dover investire sul proprio «capitale umano»[1] e metterlo a valore. Alla base della teoria del capitale umano, così come della sua capacità di imporsi a livello discorsivo, sta una precisa operazione teorica dalle rilevanti ed immediate conseguenze pratiche: il lavoro viene scomposto in capitale e reddito, e a causa di questa scomposizione il lavoratore non è più forza-lavoro, ma soggetto economico attivo, «impresario di se stesso»[2]. Il concetto di capitale viene esteso fino a comprendere tutte le conoscenze, competenze e abilità che un individuo accumula nel corso della vita. Parafrasando Roberto Ciccarelli, il lavoratore diventa il capitalista di se stesso, il suo lavoro quello di «cercare lavori»[3], rendersi «occupabile». Ciò significa doversi formare tutta la vita (Long Life Learning), potenziando se stesso (empowerment) o più precisamente la propria adattabilità al sistema, ovvero migliorando la sola competenza che realmente conti, quella di «imparare ad imparare», una delle principali competenze-chiave, insieme a «spirito di iniziativa e imprenditorialità, individuate e raccomandate dall’Unione Europea[4]. Paradossalmente, proprio nella «società della conoscenza»[5] la conoscenza non conta un bel niente, così come non conta nulla la società, se per società non si è pronti ad intendere l’impresa di tanti piccoli «imprenditori di sé»[6]. 

Per queste ragioni, lo Stato non può tornare ad essere «sociale» e creare lavoro senza liberarsi della stretta totalitaria della governance manageriale[7], che a partire dagli anni Ottanta ha invaso la dimensione del servizio pubblico procedendo alla sua aziendalizzazione. Ad essere cambiate sono tanto le funzioni dello Stato quanto la logica che lo informa. Lo Stato neoliberale non è lo «stato minimo» del laissez faire, e ciò perché la struttura ordoliberale dell’Unione Europea non lascia fare niente al caso, né tanto meno alla «mano invisibile» di Adam Smith[8], avendo messo piuttosto in campo un vero e proprio «impero delle norme»[9]. Lo stesso «progetto europeo»[10] non è che il processo di costruzione del mercato stesso, un mercato che «si è man mano dotato delle proprie regole di funzionamento, del proprio apparato istituzionale incaricato di allargarlo, di mantenerlo e di rafforzarlo»[11]. Ciò non significa che «il principale operatore economico giuridico di questa costruzione»[12] non sia la stessa Unione Europea con le sue «istanze», la sua «giurisprudenza» e i suoi «funzionari»[13]. Un mercato quindi costruito, ma proprio per questo libero di «piegare la società stessa ai vincoli di competitività»[14]: questo è il vero significato della formula volutamente ambigua «economia sociale di mercato». 

Affinché la società funzioni come un mercato, a costituirla devono essere tanti «imprenditori di sé», pronti ad auto-valutarsi, colpevolizzarsi, salvo poi essere convinti da qualche psicoterapeuta o life coach che anche loro possono adattarsi, facendosi «flessibili», «imparando ad imparare» e «meritando» così il bonus fedeltà a un sistema che precarizza l’esistenza, che fa della precarietà il massimo e più riuscito strumento di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’altra faccia della medaglia rispetto a un’esistenza precarizzata è, infatti, l’estensione della dimensione lavorativa alla vita nella sua interezza: è la vita stessa ad essere messa a lavoro: per questo non si parla più di lavoratori ma di «risorse umane»[15].

La logica dello Stato neoliberale è, infatti, la stessa «logica per obiettivi» di matrice aziendale;  obiettivi misurabili mediante appositi metodi di valutazione, i quali, stabilendo i parametri, determinano e orientano gli obiettivi stessi in modo assolutamente autoreferenziale: efficacia, efficienza e competitività. Il risultato è che il servizio pubblico è meno efficace e meno efficiente di prima. È importante comprendere come e in che senso ciò avvenga. Lo Stato neoliberale non è lo stato keynesiano: mentre in quest’ultimo ad essere valutata era la regolarità delle procedure e delle modalità di erogazione del servizio pubblico – che restavano subordinate al fine costituito dal supporto dato ai cittadini quale garante di un progresso sociale che veniva tradotto in termini di benessere per l’intera popolazione – nel modello statale odierno, ad essere valutati sono i risultati, misurati in base al rapporto costi/benefici.  

Dal momento in cui sono messi in relazione con i costi, i benefici non rappresentano più il fine dell’azione pubblica, essendo piuttosto ridotti a mero mezzo, a un parametro in base al quale valutare la competitività di un settore in termini di efficacia ed efficienza, ovvero di risparmio della spesa[16]. Il pubblico non viene, così, semplicemente privatizzato o eliminato per lasciare il campo alle sole agenzie private, ma – ancor peggio – costretto ad agire come se fosse un privato. In che modo? Istituendo società partecipate, subappaltando servizi essenziali a cooperative sociali più simili a imprese (talvolta multi-nazionali) che società no profit, e dando luogo a partenariati con aziende e soggetti privati. Lo Stato deve trovarsi dei partener con cui entrare in società, e i partner fanno a gara per poter partecipare a uno dei bussness più convenienti che la storia dei rapporti fra Stato e imprese private abbia mai offerto: mentre i guadagni e i profitti vanno alle aziende che effettivamente erogano e gestiscono i servizi, le perdite, anziché essere socializzate, vengono addossate allo Stato, che in tal modo può confermare la narrazione portata avanti negli ultimi tre decenni, ovvero quella di uno Stato spendaccione, lo Stato degli «sprechi». Sprechi che devono essere assolutamente «razionalizzati» in nome della «parità di bilancio» e del risanamento del debito pubblico, vera spada di Damocle per la democrazia, oltre che vero e proprio strumento di governo dei subalterni in mano alle élite oligarchiche nazionali e transnazionali.

Siamo di fronte a uno degli effetti più disastrosi della diffusione – avvenuta tra l’altro su scala globale – del New Public Management, nato e sviluppatosi negli Stati Uniti di Reagan e nella Gran Bretagna della Thatcher, e poi diventato una tendenza promossa da organizzazioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e il Fondo Monetario internazionale – che, per inciso, non sono proprio società del mutuo soccorso… Questo tipo di management pubblico «si basa sull’idea che gli Stati, non solo non possono permettersi di spendere “a casaccio”, ma devono spendere meno»[17]. Si tratta di «razionalizzare delle scelte di bilancio», ovvero risparmiare dove è necessario, ovvero nella cultura, nell’istruzione, nella sanità, nel lavoro sociale, etc. A predominare è la «cultura del risultato»: i funzionari pubblici – siano essi poliziotti, insegnanti, addetti ai centri per l’impiego, direttori sanitari etc. – sono obbligati a dimostrare in modo continuativo l’efficienza della loro performance. 

Da un lato, ciò ha generato e genera sempre di più il senso di frustrazione e di abbandono da parte di quei funzionari che hanno scelto di lavorare nel servizio pubblico per le più nobili ragioni, ravvisandovi quasi una «missione»[18], e che si vedono, invece, sempre più costretti a competere per il «risultato». Sono quelli che, già agli inizi degli anni Novanta, Pierre Bourdieu definiva «piccoli funzionari (…) incaricati di rivestire le cosiddette funzioni “sociali”»[19], costretti a «compensare, senza disporre dei mezzi necessari, gli effetti e le carenze più intollerabili della logica di mercato: poliziotti e magistrati subalterni, assistenti sociali, educatori e, sempre più spesso, maestri e professori»[20]. Sono costoro – spiega il sociologo francese – ad avere «la sensazione di essere abbandonati, se non sminuiti, nel loro sforzo di affrontare la miseria materiale e morale, unica indubbia conseguenza della Realpolitik economicamente legittimata»[21]. È così che si arriva ad avere agenti di polizia che vanno fuori in servizio «per motivi statistici»[22] anziché per combattere il crimine, funzionari del collocamento che ricorrono ai peggiori escamotage per abbassare le cifre della disoccupazione; dirigenti scolastici costretti a convalidare le «competenze di base» per tutti gli allievi in modo che il loro istituto possa posizionarsi in alto nella classifica scolastica. Si tratta di un vero e proprio «stravolgimento delle finalità del mestiere [che] porta a un “conflitto di lealtà”»[23], a sua volta causa di «un notevole malessere sul posto di lavoro»[24]. 

D’altra parte, nello stesso tempo viene letteralmente sdoganata la condotta più disdicevole di alti funzionari, spesso provenienti dal mondo delle imprese private, e che approdano a quello del pubblico impiego mediante un perverso quanto razionale sistema di porte girevoli, incoraggiato anche dalla stessa politica dei partenariati. Si tratta di quella che Bourdieu chiama la «grande nobiltà di Stato»[25], la quale «pretende di gestire i servizi pubblici come se fossero imprese private»[26].  Ad essere così “liberata” è la condotta dettata dal nudo interesse e da una concezione utilitarista del servizio ridotto a prestazione, che funge da moltiplicatore di corruzione, la quale non fa altro che confermare l’immagine negativa del servizio pubblico che il discorso dominante ha cercato di costruire con ogni mezzo negli ultimi decenni.

È bene, pertanto, tenere presente che non è possibile ripensare le più opportune strategie politiche e d’azione per riconfigurare politiche di piena occupazione, senza affrontare tanto i nodi dell’intero sistema normativo neoliberale quanto i dispositivi sui quali si fonda l’apparato ordoliberale dell’Unione Europea. Ciò non vuol dire che si debba rinunciare a lavorare sul singolo campo d’azione – in questo caso il lavoro – quanto piuttosto che occorre farlo disponendo di una prospettiva ad ampio raggio, uno sguardo capace di restituire la realtà sociale e politica considerata nella sua totalità, ovvero nella complessità dei molteplici nessi che inevitabilmente la costituiscono.

 

[1] Gary Becker, Il capitale umano (1964), Laterza, Roma-Bari 2008.

[2] Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 11.

[3] Roberto Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, manifestolibri, Roma 2018, p. 66.

[4] Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE). Le stesse competenze «imparare ad imparare» e «spirito di iniziativa e imprenditorialità sono confermate nella Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, con la nuove rispettive denominazioni «competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare» e «competenza imprenditoriale».

[5] Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva. Libro bianco su istruzione e formazione – Comissione Europea. Direzione Generale XXII – Istruzione, formazione e gioventù. Direzione Generale V – Occupazione, Relazioni industriali e affari sociali, Bruxelles 1995.

[6] Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 427, 429.

[7] Alain Deneault, Governance. Il management totalitario (2013), Neri Pozza, Vicenza 2018.

[8] Adam Smith, La ricchezza delle nazioni (1776), Newton, Roma 1995.

[9] Pierre Dardot, Christian Laval, Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2016, p. 67.

[10] Ivi, p. 71

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] Ibid.

[14] Ibid.

[15] Massimiliano Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015.

[16] Più precisamente, è la stessa competitività ad essere trasformata in criterio di efficienza da pratiche come il benchmarking, finalizzate alla costruzione di standard basati su confronti con diverse istituzioni. In breve, ponendosi da un punto di vista esterno a una singola istituzione, non si fissano gli obiettivi in funzione di ciò che quell’istituzione è, della sua storia e del contesto che più le è proprio, ma li si stabilisce in base alla migliore pratica (best practices) di qualche altra istituzione.

[17] Angélique Del Rey, La tirannia della valutazione (2013), elèuthera, Milano 2018, p. 48. 

[18] Ivi, p. 49.

[19] Pierre Bourdieu, Le dimissioni dello Stato, in Pierre Bourdieu (a cura di), La miseria del mondo (1993), Mimesis, Milano 2015, p. 244.

[20] Ibid.

[21] Ibid.

[22] A. Del Rey, La tirannia della valutazione, cit., p. 49.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] P. Bourdieu, Le dimissioni dello Stato, cit., p. 243.

[26] Ibid.

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