Cultura | Teoria

Gli spazi della politica

17 Novembre 2018

Comunemente si afferma che se l’economia si muove ormai su scala globale, anche la politica deve adeguarsi e articolarsi su quel livello. Sembra una considerazione talmente ovvia e autoevidente da non richiedere ulteriori giustificazioni e approfondimenti. Ma non è così. Se è vero che il terreno ideale per il “capitale” è uno spazio senza un fuori, liscio, uniforme e continuo come quello a cui tende l’attuale globalizzazione neoliberale, per la politica vale invece un discorso di segno opposto: se quest’ultima perde la connessione e il radicamento all’interno di spazi e contesti concreti, manca inevitabilmente di effettività e risulta ridimensionata nella sua capacità di domare gli spiriti animali del capitalismo e quindi di incidere positivamente sulle condizioni concrete di vita e sofferenza delle persone. 

Lo stesso dicasi per il diritto: se questo allunga il proprio passo oltre un certo territorio, vede indebolire la sua connotazione politica a vantaggio di una connotazione economica, come ci ricorda Maria Rosaria Ferrarese in un suo recente volume (Prima lezione di diritto globale, Laterza, 2012). Questo significa che uno spazio giuridico deterritorializzato è necessariamente uno spazio giuridico spoliticizzato.

Insomma, sia la politica che il diritto e la democrazia hanno bisogno di uno spazio, di un contesto concreto cui riferirsi e finora lo schema dello Stato-nazione dalla natura democratico-costituzionale, che l’Europa ha conosciuto nel secondo dopoguerra, si è rivelato il terreno ideale entro cui imporre il primato della dimensione politica sulla dimensione economica ed esercitare il conflitto sociale in senso favorevole alle classi lavoratrici. Nel cosiddetto trentennio glorioso (1945-1975) si è riusciti a istaurare e a salvaguardare, qui in Europa, un compromesso avanzato fra capitale e lavoro finché l’economia è rimasta in gran parte incapsulata dentro il contesto degli Stati nazionali. 

Nel corso degli ultimi decenni c’è stata un’indubbia sottovalutazione di gran parte delle forze di sinistra dei rischi derivanti dai processi di internazionalizzazione del capitalismo maturo e dai nuovi assetti politico-istituzionali che si andavano creando a livello sovranazionale, e ci si è ritrovati, senza troppo accorgersene o preoccuparsene, ad agire dentro un terreno di gioco che si è fatto col tempo assai ostile e inospitale. Tutti gli strumenti di cui si era dotato il movimento operaio durante il “secolo breve” per governare e orientare i processi economici, dagli anni ’70 ad oggi, sono stati a poco a poco spuntati. Prima la globalizzazione neoliberista, poi il cosiddetto pilota automatico messo in moto dalla tecnocrazia europea hanno svuotato le istituzioni democratiche nazionali di poteri e funzioni e immobilizzato la politica dentro un recinto. Il movimento operaio è stato protagonista del secolo scorso, non solo perché difendeva gli ultimi, ma perché aveva creato degli strumenti di lotta straordinari. Con la globalizzazione e la nuova architettura europea sono venuti meno i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra.

Nel suo La globalizzazione intelligente Rodrik introduce il concetto di trilemma dell’economia mondiale: ossia il fatto che sia impossibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica. Di fronte a questo contrasto la soluzione non può che essere una – conclude con piena ragione sempre Rodrik: che a prevalere sull’iperglobalizzazione siano la democrazia e la determinazione nazionale. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali; quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe inoltre basi più solide per l’economia mondiale: uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione infatti migliore e più intelligente. 

La questione che si è aperta si può definire così: le sfide poste dai processi di integrazione globale degli ultimi decenni sollecitano tessiture nuove tra politica, diritto ed economia, che siano in grado di risolvere positivamente la contraddizione fondamentale, già individuata all’inizio degli anni ’30 da Gramsci nel chiuso della sua prigionia, tra il nazionalismo della politica e il cosmopolitismo dell’economia. La priorità è allora quella di ridefinire il nesso nazionale/sovranazionale (con particolare riferimento alla posizione del nostro Paese in ambito Ue) secondo una prospettiva alternativa a quella egemone negli ultimi quarant’anni. Guardando al passato, un modello da prendere come riferimento potrebbe essere il piano di riforma del sistema monetario internazionale presentato nel luglio 1944 alla Conferenza di Bretton Woods da J.M. Keynes, che intendeva perseguire un modello di internazionalizzazione che potremmo definire moderata, in quanto si svolgeva sotto l’egida degli Stati (chi oggi parla con troppa leggerezza di crisi e tramonto degli Stati dovrebbe mantenere una qualche cautela in più; la forma Stato resta, ad oggi, l’unico spazio veramente contendibile e aperto alle istanze democratiche e di trasformazione sociale. Tra l’altro – come ci suggeriscono sia Pier Paolo Portinaro che Nello Preterossi – le forme politiche che l’Occidente ha inventato sono ridotte: città, imperi, Stati. E all’orizzonte non sembrano palesarsi modelli nuovi e più avanzati della forma Stato democratico-costituzionale. Stesse cautele dovrebbero valere quando si affronta – svalutandolo – il tema delle identità nazionali: la democrazia – va ricordato – nasce e si sviluppa nel mondo moderno come democrazia nazionale).

Se è vero, dunque, che molte problematiche e altrettante decisioni sfuggono oggi ai poteri di controllo degli Stati nazionali, le conseguenze da trarne riguardano – come abbiamo visto – il raggio d’azione dei poteri democratici. Su questo punto il dibattito è completamente aperto. Molte voci si sono levate, negli ultimi anni, per sostenere la necessità di una democrazia cosmopolitica che proietti su scala globale almeno alcune delle classiche procedure di votazione e legittimazione democratica delle decisioni politiche fin qui sperimentate nelle arene democratiche. Ma non sono mancate riflessioni più scettiche, che hanno fatto rilevare come le procedure rappresentative già abbastanza logorate a livello dei singoli Stati risulterebbero probabilmente ancora più vane e deboli se proiettate su scenari di dimensioni più ampie. Si è perciò sostenuto con una certa dose di originalità che, se si vuole pensare qualcosa di simile alla democrazia su scala globale, è necessario imprimere al significato di questo termini una torsione notevole, simile a quelle che la democrazia ha subito passando dalla piccola scala della polis a quella dei grandi Stati nazionali. Sarebbe quindi necessario sganciarsi dalla ricerca di procedure globali analoghe a quelle nazionali e indirizzarsi piuttosto verso nuove modalità di governance: dove le decisioni non scaturiscono da classiche procedure di voto, ma da processi di consultazione e coordinamento delle parti interessate; dove l’apporto delle competenze e dei saperi può essere più incisivo di quanto accada nelle procedure democratiche tradizionali; dove, infine, il potere impositivo non è più quello rigido e sanzionatorio, ma ha caratteristiche soft, perché si affida di più alla moral suasion e alla consapevolezza dei vantaggi della mutua cooperazione (sulla valorizzazione positiva di queste modalità di decisione insiste A. Ferrara, Democrazia e apertura, Mondadori, Milano, 2011).

Naturalmente quando si parla di governance bisogna far riferimento a qualcosa di concreto e già sperimentato, ovvero alla nuova “filosofia del governo” che si è imposta negli ultimi anni e che certo non rappresenta un punto di riferimento a cui guardare con favore. Per governance – più nello specifico – si intende quello stile di governo distinto da un modello di tipo gerarchico perché caratterizzato da un maggior grado di cooperazione e interazione tra Stato e attori non-statali all’interno di reti decisionali miste pubblico/private. La governance si distingue dal government nel momento in cui configura una modalità di cooperazione tra attori pubblici e privati non più basata sull’esercizio prevalente della gerarchia istituzionale, ma su processi di co-decisione e di negoziazione diffusa tra soggetti di vario genere (enti e istituzioni pubbliche, associazioni e gruppi di interesse, ecc.). Questo cambia il modo di intendere l’azione e le forme del governo statale: al governo diretto della società da parte dello Stato subentra l’affidamento alle dinamiche di auto-regolazione degli interessi e agli automatismi dell’economia di mercato. Dentro questo disegno, lo spazio pubblico-statuale perde il suo primato su quello privato e non statale, e il piano della legislazione e della «regolamentazione» autoritativa (verticale) dei processi economico-sociali cede il passo ad una nuova regolazione di tipo amministrativo. Quel che è certo è che il progetto di governance poggia nel suo complesso su una profonda ambivalenza – come ha efficacemente sottolineato la Ferrarese (La governance tra politica e diritto, il Mulino, 2010) – tra le promesse di nuovi e più estesi spazi di partecipazione democratica “dal basso” ai processi di decisione pubblica e un cuore tecnocratico, che consegna alcuni nodi nevralgici della politica economica e monetaria a organismi esterni e indipendenti dai circuiti della legittimazione democratica.

Più equilibrata la posizione di Luigi Ferrajoli (qui il riferimento è ad uno dei suoi ultimi lavori, La democrazia attraverso i diritti, Laterza, 2013), il quale distinguendo tra funzioni e istituzioni di governo e funzioni e istituzioni di garanzia (distinzione basata sulla diversità delle loro fonti di legittimazione: la rappresentatività politica per quanto riguarda le prime, siano esse legislative o esecutive, la soggezione alla legge, precisamente all’universalità dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, per quanto riguarda le seconde), ritiene che la vera lacuna a livello internazionale si identifichi con la mancanza delle funzioni e delle istituzioni di garanzia, ben più che delle funzioni e delle istituzioni di governo. Non avrebbe molto senso – a dire di Ferrajoli – un’ipotetica e improbabile democrazia rappresentativa planetaria basata sul principio una testa/un voto. A questo livello, ciò che si richiede, ben più che il rafforzamento delle funzioni e delle istituzioni di governo che riguardano la sfera della discrezionalità politica e sono perciò tanto più legittime quanto più esercitate dagli organismi rappresentativi degli Stati nazionali o delle autonomie locali, è la creazione di funzioni e di istituzioni di garanzia: non solo delle tradizionali garanzie secondarie o giurisdizionali, destinate a intervenire contro le violazioni dei diritti fondamentali, ma ancor prima delle garanzie primarie e delle relative istituzioni deputate alla loro diretta tutela e soddisfazione (in tema di salute, di alimentazione di base, di istruzione, di pace, di sicurezza, di tutela dell’ambiente). Ma – come riconosce lo stesso Ferrajoli – le tante carte dei diritti che affollano l’ordinamento internazionale mancano invece quasi totalmente, se si escludono poche istituzioni, tra le quali la Corte penale internazionale, cui peraltro non hanno aderito le maggiori potenze, di leggi di attuazione, ossia delle garanzie dei diritti in esse proclamati. E’ come se un ordinamento statale fosse composto soltanto dalla sua Costituzione e da poche istituzioni sostanzialmente prive di poteri. L’ordinamento internazionale altro non è che un ordinamento dotato di carte costituzionali e poco più. In breve, è un insieme di promesse non mantenute.

Le prospettive sopra richiamate scontano pertanto il grande limite di eludere o sottovalutare il nesso costitutivo fra politica (e diritto) e potere/forza. Se la politica cede il monopolio del potere, il potere certo non scompare, ma diventa monopolio di altri attori (vuoi economici vuoi religiosi) che sono liberi di agire indisturbati nel momento in cui, a livello più alto, non c’è alcun soggetto in grado di porre ad essi un freno e un limite. E così, una volta spezzato il legame con le istituzioni statuali abbiamo a che fare con una politica deprivata della dimensione imprescindibile del potere, che costituisce il nerbo essenziale dell’agire politico.

Ma accostiamoci meglio al paradigma culturale globalista (che tanto impera a sinistra, sia essa moderata o radicale). Vediamo in breve quali sono i presupposti del cosmopolitismo politico-giuridico, provando a individuarne limiti e criticità. Innanzitutto, c’è l’adozione della cosiddetta domestic analogy: allo stesso modo in cui, per passare dall’anarchia alla società politica, gli individui hanno dovuto rinunciare a farsi giustizia da sé e attribuire la facoltà di usare la forza a un potere centralizzato, così gli Stati, per superare l’anarchia internazionale, devono trasferire il loro potere a un organo nuovo e supremo, che abbia nei confronti degli Stati nazionali lo stesso monopolio della forza che lo Stato ha nei confronti dei singoli individui. Alla luce di questa prospettiva si ritiene che l’organizzazione delle Nazioni Unite rappresenti un’anticipazione e quasi il nucleo generatore di quelle ‘istituzioni centrali’ che saranno in grado di garantire in futuro condizioni di pace più stabili e universali. Ma sembra alquanto azzardato ipotizzare un’analogia fra la società mondiale e la nascente società civile che ha fatto da supporto al processo di centralizzazione giuridica e politica (che in Europa ha condotto allo Stato liberale di diritto), e quindi immaginare che lo sviluppo del diritto internazionale possa essere misurato sul dato dell’evoluzione del diritto statale. 

Un atro punto critico del cosmopolitismo è l’idea secondo la quale i soggetti del diritto internazionale devono essere considerati non gli Stati, ma gli individui, in quanto persone morali. La difficoltà nasce nel raccordare questo radicalismo democratico di questa fondazione del diritto cosmopolitico con l’apologia che spesso viene fatta delle attuali istituzioni internazionali. L’applicazione di un’istanza individualista e democratica alla Nazioni Unite, ad esempio, dovrebbe fare in conti con la logica gerarchica, centralista e burocratica che caratterizza questa istituzione e che pone al suo vertice il potere politico-militare di alcune superpotenze. Sarebbe necessario, se non altro, l’elezione di un Parlamento mondiale sulla base del principio individualistico e democratico “una testa un voto”. Ma questo principio è impraticabile sul piano internazionale perché assegnerebbe alle potenze demografiche del pianeta – la Cina o l’India ad esempio – rappresentanze eguali o molte volte superiori a quella di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania ad esempio. Inoltre, un sistema politico mondiale in cui da una parte ci siano gli individui e dall’altra i poteri accentrati di uno Stato mondiale senza più la mediazione di strutture politiche intermedie rischia – come rileva giustamente Danilo Zolo (I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, 2001) – “di riprodurre a livello mondiale la figura della sovranità assoluta hobbesiana. Una volta soppressa la sovranità dei Leviatani nazionali, perché ritenuta responsabile dell’anarchia internazionale e della guerra, la sovranità dispotica o totalitaria del Leviatano, si obietta, può ricomparire, e notevolmente rafforzata, nelle vesti dello Stato universale che unifica in sé la totalità del potere internazionale, prima diffuso e disperso in mille rivoli. E il Leviatiano sarebbe inevitabilmente rappresentato da un ristretto direttorio di grandi potenze economiche e militari”.

E dunque, anche riconoscendo che la centralizzazione giuridica e politica ha dato risultati significativi dal punto di vista della pacificazione dei rapporti sociali all’interno degli Stati nazionali europei, nulla garantisce che la concentrazione del potere sanzionatorio nelle mani di una suprema autorità sovranazionale sia la strada maestra per costruire un mondo più sicuro, ordinato e pacifico. D’altra parte, quella omologazione delle diversità culturali e quella estinzione dei sentimenti di appartenenza nazionale che vengono auspicate come premesse dell’unificazione giuridica del mondo possono essere guardate con molta diffidenza da parte di chi ritiene che la varietà delle culture e la pluralità delle identità etnico-nazionali siano risorse antropologiche irrinunciabili. E la diffidenza può diventare ostilità in chi ritiene che il progetto globalistico esprima una mai sopita vocazione egemonica del mondo occidentale. Come ha spiegato bene S. Latouche (L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, 1992), la globalizzazione indotta dall’egemonia culturale, comunicativa ed economica dell’Occidente non produce alcuna integrazione della società mondale, produce al contrario deculturazione e sradicamento dei popoli e dei gruppi sociali che non sono in grado di resisterle.

Altrettanto delicata è la questione se, in assoluto, sia possibile una democrazia al di fuori dei confini di uno Stato nazionale (anche se non necessariamente di matrice prevalentemente etnico-nazionale). E la riposta non può che essere molto prudente se è vero, come ha sostenuto R. Dahrendorf (Quadrare il cerchio, Laterza, 1995) il sentimento di coesione e di lealtà politica fra i cittadini è una variabile essenziale di un sistema democratico. E la coesione e la lealtà politica – per quanto astrattamente garantite nelle società moderne dallo strumento del diritto – suppongono comunque l’esistenza di legami prepolitici fra i membri del gruppo, rinviano ad una identità collettiva, Ed è provato – come rileva sempre Zolo nella sua opera già citata – “che la tenuta dei legami identitari si fa sempre più incerta via via che l’ambito geopolitico di uno Stato si dilata fino a includere culture molto diverse fra loro. Neppure il più astratto «patriottismo dei diritti» può fare a meno, per così dire, di una qualche «intimità» fra i membri del gruppo: essi non possono essere dei soggetti «estranei» gli uni agli altri. L’estraneità è l’opposto della solidarietà democratica”. Solo uno Stato nazionale sembra in grado di garantire un rapporto equilibrato, tendenzialmente democratico, fra la dimensione geopolitica e il senso di appartenenza (e la lealtà) dei cittadini e già per questo svolge una funzione difficilmente sostituibile, anche nei confronti degli eccessi secessionistici delle rivendicazioni etniche.

Su questi temi un’aspra controversia ha investito la teoria politica contemporanea e il discorso pubblico più consapevole, con particolare riferimento ai processi di integrazione europea. C’è chi si chiede se siano possibili forme di democrazia (non puramente procedurale) oltre l’ambito dello Stato nazionale e la “relativa” omogeneità culturale che esso presuppone; o se, al contrario, l’ambito della cittadinanza statale vada considerato come il solo istituzionalmente compatibile con le forme della democrazia rappresentativa, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti civili e sociali. Si tratta di questioni che comunque ben conosceva Friedrich Agust von Hayek, uno dei padri fondatori del neoliberismo, che in un suo libro della fine degli anni trenta del secolo scorso (“Le condizioni economiche del federalismo tra Stati”, di recente pubblicato dalla casa editrice Rubbettino) predicava “l’abolizione delle sovranità nazionali e la creazione di un effettivo ordine legislativo internazionale” come contributo necessario e logico completamento di un programma economico liberale che riducesse al minimo gli spazi dell’intervento pubblico in economia. Come scrive Wolfgang Streeck (Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013), riassumendo efficacemente il pensiero di Hayek, “in una federazione di Stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo Stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee”. Poste queste premesse, se ne ricava la seguente conclusione: la strada della sovranità europea conduce inevitabilmente allo “Stato minimo”, date le radicate differenze di contesto fra i rispettivi popoli.

In ogni caso, chi coltiva una visione cosmopolitica ritiene sia auspicabile a livello internazionale la realizzazione di un “ordine politico ottimo”: che cioè sia desiderabile che l’umanità sia governata da un’autorità mondiale impegnata a garantire pace e giustizia a livello globale. Contro questo progetto, giova qui ricordare la puntuale obiezione di Hedley Bull (The anarchical society, London, 1977), il quale sostiene che a livello internazionale sia preferibile – oltre che più realistico – puntare su un “ordine politico minimo”, presidiato da poteri limitari e poco interventisti perché rispettosi dell’autonomia e dell’integrità delle diverse culture.

Traendo ispirazione da questa tesi minimalista, si può sostenere che il diritto internazionale dovrebbe mirare alla costituzione di una società giuridica fra soggetti collettivi – non quindi ad una comunità di persone morali – che conceda una quantità limitata di potere sovranazionale ad organi centralizzati e consenta solo in alcuni casi eccezionali il ricorso a interventi coercitivi che limitino la sovranità dei membri della comunità internazionale. L’ordine politico minimo potrebbe “fondarsi su una struttura policentrica dell’ordinamento internazionale, anziché su una struttura centralizzata e gerarchica. In questo senso una filosofia realistica del diritto internazionale potrebbe far propria la teoria dei «regimi internazionali» elaborata da Stephen Krasner e Robert Leohane. Questi autori hanno mostrato che la negoziazione multilaterale fra gli Stati è una fonte decentrata di produzione e di applicazione del diritto che gode di notevole effettività nonostante l’assenza di una giurisdizione centralizzata e vincolante. Questa assenza non esclude che importanti questioni vengano disciplinate unitariamente dalla maggior parte degli attori internazionali, né impedisce che le violazioni delle regole sottoscritte vengano efficacemente sanzionate. E dunque l’anarchia internazionale tende a tradursi spontaneamente in «anarchia cooperativa» o, per usare l’ossimoro proposto da Kenneth Walts, in «ordine anarchico». Questa tendenza sembra corrispondere del resto ad un teorema fondamentale della Teoria generale dei sistemi: in situazione di elevata complessità e di turbolenza delle variabili ambientali è meno rischioso convivere con un alto grado di disordine, piuttosto che tentare di imporre un ordine perfetto”. (D. Zolo, op. cit.)

L’ordine politico “minimo” dovrebbe presupporre forme di “interventismo debole” e questo dovrebbe valere per l’intero ventaglio delle questioni internazionali, incluso il tentativo di imbrigliare con mezzi “deboli” l’aggressività distruttiva della guerra. In questo senso si può dire – prendendo in prestito l’efficace metafora che Danilo Zolo ha utilizzato in un altro suo fondamentale lavoro (Cosmopolis, Feltrinelli, 2002) – che è necessario passare dalla logica del Leviatano a quella delle mille esili catene di Lilliput. Mettendo da parte la pretesa, a cui in definitiva si riduce la dottrina del pacifismo istituzionale incarnata nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di sradicare la guerra con mezzi di repressione sovranazionali. Contro questa opzione gerarchico-militare di tratterebbe di pensare a istituzioni decentrate di diplomazia non coercitiva e a tecniche di riconciliazione “deboli”, che si propongano obiettivi più modesti, ma proprio per questo più efficaci nel lungo periodo (per una descrizione di quelle che potrebbero essere le funzioni e la struttura organizzativa di istituzioni internazionali che abbiano il compito di lavorare per la pace secondo una strategia “debole” si rinvia alle indicazioni che sempre Zolo ci fornisce, sebbene in maniera inevitabilmente generica, in Cosmopolis).

Sarebbe dunque necessario un reticolo di istituzioni internazionali, e soprattutto regionali e nazionali, specializzate nella comunicazione interculturale e, per questo, nella valorizzazione delle identità etnico-culturali (Il fatto che le identità siano artificiali, anzi che siano una stratificazione di artificialità, non vuol dire che siano finte, che non esistano. Tutto ciò che l’uomo fa è “costruito” ed “effettivo”: storia, cultura risposte alle sfide antropologiche elementari. Ciò che importa è non attribuire al tema dell’identità un fondamento essenzialista o assoluto, perché queste appartengono alla dimensione storico-culturale che come tale ha natura transeunte e relativa. Ma negare che i bisogni di identità e appartenenza, che possono essere declinati in modi anche aperti e democratici, esistano e vadano riconosciuti o che gli “accumuli” di storia e cultura, i cosiddetti elementi culturali di lunga durata, abbiano peso e importanza, ma anzi vadano disconosciuti e svalorizzati, rappresenta un grande limite e un grave errore di giudizio e di analisi). L’assunzione implicita di questa tesi è che effetti di pacificazione possono venire non da una compressione cosmopolitica delle particolarità etnico-nazionali (che, se negate, riemergono in forme degeneri e regressive), ma da un loro riconoscimento generalizzato come espressione della complessità evolutiva e della ricchezza culturale della specie. 

Fra l’omologazione indifferenziata e le identità rigide, esclusive e conflittuali andrebbe coltivato lo spazio per un pensiero della “diversità umana” che guardi alle differenze umane non come ad alterità da combattere, ma come a “differenziazioni evolutive che confermano la multilateralità e l’apertura al mondo quali caratteristiche della specie umana, contrastando le mai dismesse volontà egemoniche dell’Occidente. E questo esigerebbe non solo il riconoscimento della legittima diversità dei sistemi etici e giuridici espressi da tradizioni culturali diverse, ma anche l’attribuzione a ogni entità nazionale di un’eguale dignità e autonomia sul piano internazionale. Contro la prospettiva cosmopolitica che guarda con sfavore alla molteplicità e alla diversità – e tende a comprimerle entro una macrostruttura gerarchica (…)  – una cultura della biodiversità umana dovrebbe puntare sulla libera affermazione delle soggettività politica e quindi degli Stati”. (D. Zolo, Cosmopolis) 

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