Cultura | Teoria

La rottura dell’economia morale e il momento populista

23 Ottobre 2018

Nel 1971, lo studioso e attivista inglese Edward P. Thompson pubblicava sulla rivista Past & Present un saggio sull’economia morale la cui lettura – nonostante siano passati più di 40 anni e molto sia stato scritto in merito – è  ancora di grande interesse e meritevole di attenzione.

La sua riflessione partiva dalla proteste della “folla” e dal fatto che a queste venisse negata, da parte di molti storici, la dignità di essere mediate da codici culturali e di avere, in fin dei conti, degli obbiettivi politici, ancorché confusi: «Le rivolte erano “ribellioni di pancia”, e questa in effetti sarebbe una spiegazione comoda». Per Thompson invece «in quasi tutte le azioni di piazza […] è possibile individuare delle nozioni di legittimità: con nozioni di legittimità intendo che il comportamento degli uomini e delle donne della folla era guidato dalla comune convinzione di difendere, in tal modo, diritti e costumi tradizionali; e, più in generale, dalla convinzione di godere della più ampia approvazione della comunità». La “gente”, in pratica, si attivava in funzione della legittimità o illegittimità del governo dell’economia, definito secondo «una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità, che, nel loro insieme, costituivano l’”economia morale” del povero». Questa “economia morale” non poteva essere semplicisticamente liquidata come apolitica «perché presupponeva una precisa concezione del benessere comune sostenuta con passione».

Thompson parlava del 18° secolo, ma come tutti gli storici teneva gli occhi sul passato e i piedi nel suo presente. Ed è di nuovo interessante capire da dove scaturivano queste ribellioni “di pancia”. Era l’età delle riforme liberiste, che deregolamentavano l’economia all’insegna del laisser-faire, portando a equilibri dove la nuova economia voleva essere «liberata dalla soggezione a imperativi morali sentiti come estranei». Questo richiamo all’opposizione sociale che incontrarono quelle che spesso oggi vengono ricordate come riforme illuminate, e che tanta fortuna trovarono nella Toscana di quel tempo, non è inutile in un epoca come la nostra, dove tanti riformisti “progressisti” – primi fra tutti proprio quelli di origine toscana con la loro passione per Pietro Leopoldo – tendono a equivocare quella fase.

Ora, ogni società si fonda su una visione stabilita e condivisa delle norme che regolano la vita economica e sociale. Con il termine “economia morale” si intende quindi, come abbiamo visto, una visione consolidata e radicata delle norme e degli obblighi che legano fra loro le diverse componenti di una società, impegnate ciascuna a svolgere le corrette funzioni che spettano loro all’interno della comunità. Non è un sistema dove sono assenti le ingiustizie, si badi bene, ma un modello in cui queste entro certi limiti trovano compensazioni e contropartite in termini di sicurezza, permettendo a tutto il meccanismo di funzionare. Ma quando questa curiosa economia viene messa in discussione si apre una fase di crisi, si crea una rottura fra le componenti sociali che lottano per stabilire il nuovo assetto egemonico del futuro, ciascuna partendo dai propri interessi e dai propri modelli di riferimento. Quelli popolari, che di solito “subiscono” il cambiamento, tendono a cercare nel passato i riferimenti per disegnare il futuro. L’idea è cioè quella di “ristabilire” la giustizia sociale.

Ma è possibile identificare la fase storica in cui viviamo come un’epoca di rottura dell’economia morale? La risposta non può che essere positiva. Viviamo in un momento storico di radicale sconquasso sociale. Fenomeni che credevamo relegati al passato di povertà, di devastazione economica di interi paesi, di sfruttamento estremo, ritornano in forme vecchie e nuove: migrazioni di massa, lavoro gratuito, mancanza di servizi sociali e di assistenza sanitaria, contratti individuali di lavoro, finto lavoro autonomo a partita IVA, precarietà. La disoccupazione è tornata ad essere l’incubo che incombe sulla vita di milioni di persone, a rischio di marginalizzazione. Lo Stato sembra tornare ad essere – come fu prima della Repubblica – un ente estraneo alla gran parte della cittadinanza e lontano dai suoi bisogni. Non sono solo gli effetti della crisi economica iniziata nel 2008, ma i risultati di almeno un trentennio di politiche neoliberiste di mano libera totale del privato in economia, di disimpegno statale dai settori di sua competenza, di privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica. La crisi non ha fatto altro che accelerare, e rendere più evidenti e drammatici, tali fenomeni, insieme alla portata ed ai rischi per la popolazione della finanziarizzazione dell’economia, che non risponde a nessuna regola di utilità sociale e benessere diffuso – nonostante il mantra di quanto “i mercati” siano impegnati, a suon di richieste perentorie, a fare il nostro bene – ma solo all’egoistico interesse del maggior profitto, sempre, comunque e dovunque, a qualsiasi prezzo.

E’ così venuto progressivamente meno, in questi decenni, il patto sociale costruito faticosamente a partire dal secondo dopoguerra e che aveva retto almeno fino al tornante degli anni ’80. Un patto che impegnava lo Stato nei confronti dei propri cittadini per assicurare la redistribuzione delle risorse e della ricchezza prodotta, fornire servizi, curarsi dei bisogni della popolazione. Progressivamente cancellato, di questo compromesso sociale, rappresentato dalla Costituzione repubblicana in Italia, non restano che le briciole. Nel frattempo, mentre la maggioranza della popolazione si è trovata a fare i conti con briciole sempre più scarse, una ristretta minoranza si è accaparrata i piatti di portata, lasciando il tavolo vuoto. Infatti la ricchezza ha subito processi di polarizzazione e di concentrazione rapidi e giganteschi, la cui essenza è stata colta dal movimento Occupy wall street con lo slogan “Noi siamo il 99%”. Una ristretta minoranza oligarchica ha messo le mani su tutte le fette della torta, e se le tiene strette. Un modello che si riproduce dal globale al nazionale e giù giù fino al locale ed all’interno di interi comparti lavorativi ed economici. Per dirla in breve, è stata rotta l’economia morale dello Stato a vocazione sociale tramite il suo disimpegno dall’intervento attivo, in favore di una nuova legge del più forte.

Si sono così venute a creare le condizioni critiche per il concretizzarsi di quello che viene chiamato il “momento populista”. Un frangente, dalla durata sconosciuta, in cui l’autorità tradizionale entra in crisi, non più legittimata ad esercitare il potere, e si apre una lotta per la costruzione del nuovo assetto, che è una lotta per l’egemonia sull’ordine della società che verrà. Un passaggio che Íñigo Errejón e Chantal Mouffe hanno ben descritto in un libro del 2015, Construir pueblo. Prima di tutto, si apre un «divorzio fra i rappresentanti e i rappresentati», che in Italia è stato perfettamente incarnato dall’immaginario della “casta”, insieme a un collasso «nella capacità dei modelli istituzionali esistenti a soddisfare le domande dei cittadini», una dinamica perfettamente vista all’opera in questi anni di austerity, che si unisce all’impoverimento e declassamento del ceto medio. Il risultato è un’accumulazione di scontento che non riesce a trovare un’espressione nei canali politici preesistenti portando a un senso di esclusione. Il momento populista per Errejón si caratterizza proprio per questi aspetti, per l’inabilità delle classi dirigenti a mantenere il consenso e ad assorbire il malcontento, avendo perso la fiducia della popolazione e non essendo più in grado di offrire garanzie, dato che si sono private, tramite le proprie stesse scelte economiche, della possibilità di rispondere alle richieste provenienti dal basso. Richieste che, possiamo aggiungere, vengono allora bollate come illusioni, quando va bene, e come frutto di ignoranza e stupidità, quando va male. Come “di pancia”, per tornare all’inizio.

Certo il momento populista, anche se è l’esito di una rottura dell’economia morale, prende forme diverse rispetto al tempo di cui parlava Thompson. La rabbia non si esprime più in tumulti – almeno non nel mondo Occidentale, dato che le primavere arabe ci hanno insegnato che non sono consegnati alla storia – ma prende la strada elettorale e dei social media, quale nuovo canale di espressione. Infatti, come notano i due autori, l’ordine non collassa perché le folle sono per le strade ma per il motivo opposto, perché la gente sta a casa, passiva, rassegnata, senza fede nella rappresentanza disponibile, ma non avversa allo Stato. La crisi è dei rappresentanti, non delle istituzioni, circostanza che permette, negli stati occidentali, l’espressione della rabbia attraverso i canali elettorali senza il venir meno della capacità dello Stato di mantenere il controllo del territorio.

Una volta aperta questa crisi organica che mette in discussione lo status quo, continua Errejón, l’arena sociale si frammenta, essendo venuti meno i punti unificanti precedenti. In queste condizioni, diventa possibile «costruire un’identità popolare in grado di riunire in un unico gruppo tutto il dolore e la frustrazione, grazie a una polarizzazione simbolica: e attraverso questo diventa possibile costruire una volontà popolare intorno a punti di riferimento, nomi e simboli nuovi o ri-significati, che fungono da catalizzatori. É in questi momenti che possono verificarsi “rotture populiste”, in grado di produrre cambiamenti politici e nuove egemonie». Ma sull’esito politico della rottura la battaglia è aperta. Perché il “momento populista” non ha un esito inevitabile, è semmai uno spazio di contesa aperto a tutti gli attori in campo. E non è detto che si giochi tutto in una sola partita. In Italia il renzismo, con la retorica della rottamazione, ne ha già giocata una, prima di passare il testimone agli attuali player, il M5S con l’innocuo discorso “anti-casta” tutto centrato sull’onestà che finisce per produrre una “tessera del pane” come è il reddito di cittadinanza e, più ferocemente, la Lega, che nello slogan “prima gli italiani”, escludente e venato di avversione indiscriminata verso tutto ciò che è estraneo o proviene dall’estero, ha trovato il suo catalizzatore capace di aggregare consenso, promettendo un benessere sulla pelle dei più deboli che non sarà comunque in grado di garantire. Ma non per questo dobbiamo aver paura del momento populista a prescindere. Anzi, questa arena è si un luogo di rischi ma anche di opportunità, se solo si è in grado di mettere in campo una proposta capace di giocarsi la partita per l’egemonia su basi sociali e democratiche che puntino a ristabilire un equilibrio più avanzato del precedente. 

Purtroppo, in mezzo a tutti questi giocatori, è mancato fino ad oggi, in Italia, chi si sia proposto efficacemente di giocare la partita dalla parte dei cittadini e del lavoro, di quello che c’è e di quello che manca, dalla parte del welfare e dei bisogni, contro l’austerity, il fiscal compact e i reali assetti economici, anche europei, all’origine della rottura dell’equilibrio. E’ mancata la capacità di abbandonare retoriche ormai vuote, immaginari liberisti o vetero che hanno fatto il loro tempo, pratiche inefficaci e modelli comunicativi inadeguati. È mancato un vero tentativo di mettersi in ascolto, senza fare gli schizzinosi, dei bisogni della gente comune, delle domande di protezione, sicurezza e lavoro. È mancata la ricerca di una nuova sintonia fra il modo di pensare, di parlare, di proporre e di agire degli attivisti con quello delle persone che stanno sedute a casa, accettando di giocare la partita nel campo aperto del momento populista, per proporre un progetto di democrazia sociale avanzata. E’ un compito non più rimandabile. L’internazionale reazionaria è alle porte, come ci ha rammentato Pablo Bustinduy in un appassionato incontro in un paese della Sicilia dimenticato “da Dio e dallo Stato”. E come ci ricordano Mouffe ed Errejón, «il populismo di estrema destra ci ha mostrato che se il popolo non è costruito dalla sinistra, sarà costruito contro la sinistra». 

È quindi urgente dare una risposta alla rottura dell’equilibrio dell’economia morale per vincere la partita sul terreno del momento populista. Si deve accettare la sfida, non abbiamo altra scelta. Perché, ancora una volta, i gruppi sociali popolari subiscono il cambiamento e guardano al passato per immaginarsi un futuro, e quel passato non è il paese di Bengodi, ma a ben guardarlo vi si scorge la Repubblica fondata sul lavoro che agisce per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale all’effettiva uguaglianza e rendere effettivo il progresso materiale e morale delle persone, senza distinzioni. In questo passato stanno le basi per costruire un progresso più avanzato dell’ordine precedente. Il resto sono solo barbarie.

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