Cultura | Teoria

Lo scandalo del populismo

11 Novembre 2018

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Dagli Stati Uniti di Trump al Brasile di Bolsonaro, dall’Italia di Salvini alla Germania dove la nuova destra prende sempre più campo ad ogni tornata elettorale; dalle metropoli alle periferie, insomma, son tornati a circolare i “fenomeni morbosi più svariati”, e la nota asserzione di Antonio Gramsci è il memento dell’inquietante terremoto politico che attraversa le nostre società. Bisognerebbe tuttavia conservare la forza (la speranza?) per leggere per intero il celebre passo dei Quaderni. Ci accorgeremmo che questo contiene uno sguardo sul futuro più aperto di quanto si possa immaginare. “L’interregno – si chiede il prigioniero – si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio?”. Oppure la crisi delle vecchie ideologie, il loro stanco rinsaldarsi attorno a formule canoniche, l’emergere di forze giovani non più inquadrate nel vecchio ordine; la rottura, insomma, “tra masse popolari e ideologie dominanti”, finiranno per aprire “la possibilità (e necessità) di formazione di una cultura nuova”? Questo interrogativo, col quale il passo dei Quaderni si chiude, non resta privo di ambiguità. Ma l’ambiguità – nel senso di non chiuso, non definito – costituisce la cifra della crisi. 

La crisi come (ri)apertura del campo del possibile, dunque, dopo la lunga notte del pensiero unico, dopo la rottura del recinto che la governance neoliberale aveva costruito a salvaguardia dell’accumulazione finanziaria sulle macerie della democrazia costituzionale. Lo scandalo del populismo è lo scandalo della riapertura delle possibilità della politica. In Brasile ha vinto la reazione più tetra, ha vinto Bolsonaro. Ma, si dice, se a Lula fosse stato possibile candidarsi, la sinistra avrebbe vinto ed un progetto opposto di società avrebbe potuto continuare a camminare sulle gambe del vecchio tornitore divenuto Presidente. C’entra di certo, in questo orizzonte schizofrenico, il peso assunto dalle leadership nella politica contemporanea. Ma esiste forse una testimonianza più evidente dell’espansione del campo del politicamente possibile, di questa vittoria del fascismo brasiliano che avrebbe potuto essere evitata, in seno al medesimo corpo elettorale, dalla partecipazione alla contesa di colui che rappresenta tutto ciò contro cui quella stessa vittoria sembra esser stata ottenuta? E non era forse il populismo progressista di Bernie Sanders, a posteriori, l’unico antidoto possibile al trumpismo?

Sia per pigrizia, sia per interessato calcolo, i grandi media e la sinistra liberal affastellano sotto un’unica sottospecie etichette stanche e prive di reale rispondenza, fino alla più fine esegesi applicata al macchiettismo del sottobosco politico – sovranismo, populismo, rossobrunismo. Il populismo come l’assoluto di Schelling, paragonato nella critica di Hegel alla notte che fa apparire bigi tutti i gatti. Non ci si accorge che il populismo riapre ovunque i termini della contesa politica. Perché lo scandalo del populismo è lo scandalo della nuova irruzione nell’agone politico dell’elemento plebeo, che la governance neoliberale si era illusa di aver espulso per sempre dal recinto. Di qui tutte le giaculatorie sulla fine della storia, sulla classe media globale riconosciuta in tutte le sue infinite identità e sulla cura dei pochi esclusi affidata alla compassione ed alla carità. “Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma”, avvertiva Machiavelli.

Gettare uno sguardo sul mondo implica il riconoscimento che ovunque il populismo, lungi dal costituire un fenomeno indistinto, ha comportato la polarizzazione delle scelte politiche; ha messo in crisi il primato della tecnica amministrativa neoliberale. Da questo punto di vista, l’osservatorio italiano, è vero, pare il più angusto per prendere atto delle possibilità insiste nello scenario nuovo. Qui si scorgono solo i “fenomeni morbosi” partoriti dalla crisi. Ma una via d’uscita, prima ancora che praticata, va saputa immaginare. Lo seppe fare Gramsci tra le quattro mura di un carcere, imperante da noi la reazione fascista. Dove andare a cercare, in quale magma immaginare la via d’uscita, per poi praticarla? La crisi non è solo economica, è istituzionale, è sociale ed è morale. Attendarsi sotto le vecchie certezze significa attendere il crollo per esserne travolti, rinunciare alla vittoria attestandosi sulla testimonianza. Riaprire i termini della contesa implica il lavoro sporco all’interno delle contraddizioni del blocco populista. Questo significa cedere alla moda del momento? Rincorrere la nuova destra, come la sinistra ha fatto con la vecchia destra nell’epoca chiusa dalla crisi? Niente affatto. Significa mantenere alte le conquiste di progresso e di liberazione dell’epoca passata, ma farle camminare sulle gambe solide dei bisogni e delle aspettative plebee. Opporre al reddito di servitù un piano del lavoro garantito; opporre alla paura dell’immigrato la denuncia della rassegnazione delle classi dirigenti nostre all’emigrazione dei nostri giovani; opporre alla retorica nazionalista ed esclusiva l’idea di una comunità aperta e la pratica della buona accoglienza; opporre ai profitti facili delle oligarchie una nuova funzione di sviluppo per lo Stato costituzionale. Ritrarsi inorriditi di fronte ai timori dei popoli apre solo praterie all’avversario e alla sua controrivoluzione preventiva. Urge immaginare un domani migliore a partire dallo scandalo dell’irruzione plebea, non contro di essa.

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