Cultura | Teoria

Montaliani e veltroniani

23 Settembre 2019

Da una parte c’è Eugenio Montale con il suo celebre “codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, dall’altra Walter Veltroni (o la sua riduzione satirica, che è lo stesso) che a ogni piè sospinto sottolineava “ma anche” per non scontentare nessuno.

Che c’azzeccano un poeta e un appassionato di cinema con l’analisi politica? Molto, anzi moltissimo. Perché mai come oggi la frattura sta tutta lì, tra il montalismo da un lato e il veltronismo dall’altro. Entrambi questi approcci, se applicati al contesto attuale, rivelano il nodo gordiano relativo all’identità politica. 

Un’identità, infatti, si può generare per negazione (montalismo) o per addizione (veltronismo). Se il secondo approccio può risultare più chiaro (accumulo tante tessere del mosaico, ovviamente opposte, per poter neutralizzare qualsiasi forma di conflitto), il primo merita due righe di spiegazione. Costruire un’identità per negazione, infatti, non vuol dire superficialmente costituire il “Fronte del NO”, ma significa, invece, fare chiarezza, fare pulizia in uno scenario tossico e indecifrabile, quale quello nostrano, per poter rispondere a un’esigenza diffusa, un “senso comune” verrebbe da dire, che non ha rappresentanza, né forma. 

Con la crisi del 2008 si è materializzato in gran parte del mondo occidentale uno spaesamento, che covava almeno dagli anni Novanta, di fronte all’incapacità e alla mancanza di volontà da parte dei due principali attori politici (la destra e la sinistra) di affrontare un tale collasso economico. Tale spaesamento ha generato un’onda che in diversi Paesi europei ha determinato il milieu adatto per la nascita di movimenti e partiti politici “terzi”, che hanno fatto della loro “terzietà” e della negazione delle opzioni esistenti il fulcro identitario di base. Si badi bene, non si trattava dell’ennesimo e sterile gruppuscolo “de sinistra” che non si riconosceva nel blairismo adottato dai partiti afferenti al sedicente socialismo europeo. Si trattava, invece, di formazioni che nei modi e nei contenuti differivano dal noto bipolarismo “destra/sinistra”, benché tra i sostenitori ci fossero molti naufraghi fuggiti da una sinistra sempre più vuota e imbarazzante. Tale fu l’origine del successo di Podèmos, della France Insoumise, del Movimento 5 stelle. Li si chiamò anche partiti “populisti”, perché così era definito il momento in cui hanno preso vita e che ha donato loro un’insperata spinta elettorale ascendente. 

Potremmo dire, quindi, che fu il momento populista a rendere necessario la costruzione di un’identità politica populista, slegata dai riferimenti canonici che avevano fallito per la loro inefficacia (se non addirittura compiacenza) rispetto alla crisi, che da economica diveniva sempre più politica ed esistenziale. Tale costruzione identitaria non poteva che avvenire attraverso una prima fase montaliana, che per negazione facesse emergere la propria “terzietà”.

È del tutto evidente che l’approccio bipolare a cui molti Paesi europei erano abituati si rivelò inadatto al momento populista e potremmo concludere tranquillamente che il bipolarismo “destra/sinistra” e il momento populista sono conflittuali, se non apertamente incompatibili. Del resto, per ricordare l’Italia di fine Ottocento, fu proprio l’inadeguatezza della destra e della sinistra liberale (quelle storiche, con la maiuscola, per intenderci) all’indomani di un potente momento populista che diede avvio all’ascesa del partito socialista, che risultò del tutto “terzo” rispetto alla diatriba decennale in seno al mondo borghese.

Dunque, premessa l’incapacità strutturale del bipolarismo di dare rappresentanza alla massa di chi non ha parte, che costituisce il cuore del nuovo popolo, risulta quanto meno singolare la tendenza registrata negli ultimi mesi, all’interno di due importanti movimenti del populismo socialista, nello specifico Patria e Costituzione e Senso Comune, ad appiattirsi sulle logiche bipolari, adottando un veltronismo usa e getta che li vorrebbe “di lotta e di governo” (tanto per citare una formula che in passato non portò particolare fortuna), favorevoli al nuovo governo ma senza firmare cambiali in bianco, dialoganti con la sinistra, ma anche ostili a gran parte di quello che la stessa sinistra al governo ha fatto. Proprio come se vivessimo in una narrazione da carri armati di cartone che impone di bere l’amaro calice nonostante sia palesemente tossico.

Si badi bene, la politica è il luogo per eccellenza delle trasformazioni, degli adattamenti, dei compromessi. Ciò che lascia perplessi non è la possibilità, generalmente intesa, di modificare la direzione da imprimere al proprio movimento. Ciò che stupisce è che tale azione venga compiuta senza tenere conto delle conseguenze. Se la storia politica può insegnare qualcosa, vale la pena ricordare che, dal 1996 in avanti, il bipolarismo ha finito per sfarinare qualsiasi gruppo politico che non fosse capace di recidere “senza se e senza ma” i legami con i due contendenti sull’asse “destra/sinistra”, nello specifico filoberlusconiani e antiberlusconiani. La sorte di Rifondazione comunista, ricordata in precedenza con lo slogan che fu anche il proprio epitaffio, è nota a tutti. Va aggiunto, al proposito, che la clava sulla capoccia di Rifondazione non arrivò solo dall’avere governato con il centrosinistra prodiano, ma dal non aver capito che il momento richiedeva una posizione che uscisse dallo stilema classico “destra/sinistra”, a favore di quello tipicamente populista “alto/basso”, pena la propria dissoluzione. Che puntualmente avvenne. 

Ciò che lascia altrettanto perplessi è che non si presti la dovuta attenzione a quanto ben delineato sia da Vladimirò Giacchè (“non esiste futuro per una sinistra che appoggi questo governo”) che da Geminello Preterossi, secondo cui il voto di fiducia “condizionato e condizionante” di Stefano Fassina lascia praterie alle destre (Lega e Fratelli d’Italia), consentendo loro di proporsi ancora al Paese come movimento antisistema contro un governo calato dall’alto, presagendo il “ritorno, dopo trent’anni di assenza, di una conventio ad excludendum” come ben indicato anche Carlo Galli [1]. 

A oggi, dunque, le possibilità sono due: o il momento populista è davvero finito, quindi siamo di fronte a una normalizzazione del sistema che, tornando al vecchio asse “destra/sinistra”, tenterà di intercettare i bisogni popolari per darne una qualche rappresentanza, oppure il momento non è concluso e qualsiasi cedimento all’asse “destra/sinistra” implica l’abbandono di ogni velleità di rappresentanza di chi non ha parte e prelude solo all’appiattimento su una delle parti e, conseguentemente, alla propria disfatta (come accadrà con tutta probabilità al Movimento 5 stelle che con la doppia alleanza, prima verde poi rosa, sta erodendo il suo patrimonio elettorale).

Uno dei principali meriti della Scuola di Frattocchie è di aver ribadito che le ragioni che diedero avvio al momento populista e al pericoloso smarrimento popolare non sono affatto tramontate, anzi. Le analisi emerse segnalano che le domande cruciali sono rimaste inevase da parte dei diversi governi dell’asse “destra/sinistra” e che il collo d’imbuto nel quale tali domande, inevitabilmente, finiscono resta sempre lo stesso: la UE e la sua politica economico-monetaria. Siccome né a destra né a sinistra vi è alcuna volontà di affrontare la questione, magari sul modello del piano A e del piano B, come adeguatamente argomentato da Matteo Masi in un precedente articolo, non si vede come le notevoli proposte emerse a Frattocchie possano anche solo lontanamente prendere forma concreta. Se a destra il tema della sovranità monetaria è solo fumo negli occhi, relegato ormai alle ridicole chiacchiere fatue del duo Borghi&Bagnai, che nella Lega contano forse meno di quel che contava Gianfranco Miglio secondo la nota citazione di astrometeorismo data da Umberto Bossi (“una scoreggia nello spazio”), a sinistra il tema resta tabù. 

Per questa ragione, ribadiamo la necessità di non cedere in alcun modo alla tentazione di rientrare nella comfort zone dell’antisalvinismo (vale lo stesso per un’ipotetica quanto ingiustificabile e inaccettabile sbornia filosalviniana), perché ciò significherebbe la rinuncia a tutto ciò che i movimenti del populismo democratico e socialista hanno in qualche modo rappresentato fino a ora. E privarsi dell’enorme potenziale di rottura di questi movimenti sarebbe semplicemente scellerato, oltre che in aperta contraddizione con quanto proclamato negli ultimi due anni.

Coerenti col nostro classicismo tragico, non crediamo che un terzo polo abbia la strada lastricata d’oro nella rigenerazione di un fantomatico paradiso perduto. Eppure, siamo convinti che tale posizione sia la logica conseguenza di un inarrestabile moto d’anima, che ci impone di superare il bipolarismo del passato che ora, come diceva quello, da tragedia tende a riproporsi sotto forma di farsa.

Marco Baldassarri, Michele Berti, Fabrizio Capoccetti, Lorenzo Disogra, Mattia Maistri, Matteo Masi, Diego Meleagri, Giulio Menegoni, Federico Pederzolli, Lorenza Serpagli

[1] https://ragionipolitiche.wordpress.com/2019/09/04/che-cose-questa-crisi/

 

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