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Il grande esodo dall’Honduras neoliberale

24 Ottobre 2018

Una carovana di tremila migranti è partita dall’Honduras, ha attraversato il Guatemala e tra venerdì e sabato è entrata in Messico attraversando il ponte che collega Tecun Uman, in Guatemala, con città Hidalgo, prima tappa messicana nel percorso verso nord. Viaggiano uomini, donne e bambini e molti minori non accompagnati, cinquantaquattro sono stati fermati al confine Honduras-Guatemala, altri sono riusciti a passare. Il Presidente Trump aveva intimato al governo messicano di fermare la carovana prima che entrasse in Messico, ma il fiume di honduregni è riuscito a passare il confine, chi aprendo varchi tra le recinzioni della polizia messicana, chi buttandosi nel Rio Suchiate dal lato guatemalteco e risalendo dal lato messicano. Da Ciudad Hidalgo la carovana ha camminato fino a Tapachula e intende risalire il paese fino alla frontiera con gli Stati Uniti. 

Altre carovane di migranti centroamericani erano entrate in Messico, ma questa è di gran lunga la più numerosa e in continua crescita, dalla partenza in Honduras di circa 3000 migranti si registrano tra le 4000 e le 5000 persone a Tapachula. L’obiettivo è la frontiera americana, 3500 chilometri fino a Tijuana, città a confine con gli Stati Uniti dove un muro a metà tra terraferma e oceano Pacifico divide il Messico dagli Stati Uniti. La migrazione honduregna verso gli Stati Uniti è un fenomeno più recente di altri, per esempio della storica migrazione messicana, ma si è imposta tra i maggiori flussi migratori del centroamerica da oltre dieci anni. Alcune stime parlano di un terzo della popolazione fuori dal paese, la maggior parte della quale tra Messico a Stati Uniti.

Il triangolo nord dell’American Centrale, formato da Guatemala, Salvador e Honduras, ha storicamente sofferto di instabilità politica, lenta crescita economica per lo più basata su sfruttamento di risorse naturali e un alto tasso di violenza che ha contribuito a portare in prima posizione, per diversi anni consecutivi, le città honduregne di Tegucigalpa e San Pedro Sula come i luoghi con il più alto tassi di omicidi al mondo. 

Se la violenza importata in America Centrale tramite la deportazione di centinaia di mareros dalle carceri di Los Angeles alla fine degli anni ottanta non è un fenomeno recente, l’esodo honduregno può per alcuni versi essere considerato tale e affonda le sue radici in episodi che hanno segnato la storia recente del paese. Il 29 giugno del 2009, anno che segna lo spartiacque per un paese in via di sviluppo già con situazioni socioeconomiche complesse a cui far fronte, l’Honduras registrò un colpo di stato a seguito del quale il presidente Manuel Zalaya fu obbligato ad abbandonare il paese e rifugiarsi in Costa Rica. Le elezioni che seguirono nel bel mezzo della protesta civile videro l’astensione del 70% dei cittadini e portarono al potere il conservatore Porfirio Lobo Sosa. La maggior parte dei paesi occidentali (tra cui Italia, Canada, Cina, Brasile, Francia, Germania, Giappone e Norvegia) ha condannato il golpe, a eccezione degli Stati Uniti che godono di un notevole peso politico, militare ed economico nella regione. In un’intervista all’allora Segretario del Dipartimento di Stato americano Hillary Clinton veniva dichiarato che il governo honduregno aveva agito ‘secondo la legge’. I dati mostrano un paese che dal 2009 è sprofondato nella violenza e nella miseria con il tasso di indebitamento più alto della storia, più del 65% della popolazione in stato di povertà e quattro milioni di persone in povertà estrema. A fronte di questa miseria e di indici di violenza e omicidi molto alti (nel 2016 si sono registrati 112 omicidi ogni 100.000 abitanti rispetto a un tasso medio mondiale di 6), l’Honduras registra tra i più alti tassi di diseguaglianza e di impunità in America Latina. 

Prima del 2009 le cose erano andate diversamente. Durante il governo di Zelaya, l’Honduras ha registrato una crescita media del 6.7% del Pil e si implementarono diverse politiche sociali tra cui l’educazione gratuita. In un’intervista del 2011 Zelaya parlò di alcuni aspetti che avevano caratterizzato il suo mandato tra cui la rottura del monopolio di energia elettrica che l’Honduras aveva con Stati Uniti e Europa e che aveva reso l’energia di uno dei paesi più poveri al mondo la più costosa dell’America Latina. 

Nel 2014, altro anno fondamentale per l’Honduras, il governo sigla un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI). La ricetta proposta prevedeva una serie di ingredienti neoliberali per far fronte a uno stato in piena recessione e con un tasso di disoccupazione che passò dal 35.5% nel 2008 al 56.4% nel 2014. L’accordo prevedeva 189 milioni di dollari in tre anni in cambio di riforme strutturali che includevano forti privatizzazioni, controllo della spesa pubblica e delle pensioni tra gli strumenti principali. L’obiettivo era quello di abbassare il debito attraverso la riduzione della spesa pubblica, soluzione che l’America Latina conosce bene soprattutto per la mancanza di crescita socioeconomica dei paesi che hanno applicato la ricetta neoliberale. L’accordo, oltre a non migliorare le condizioni del paese nonostante le privatizzazioni messe a punto, si è abbattuto sulla già debole classe media honduregna impiegata per lo più in un settore pubblico che subì molti tagli. L’accordo con il FMI si è concluso nel 2017: sebbene parte dei termini siano stati raggiunti (abbassamento del debito pubblico e privatizzazioni) il paese è fortemente dipendente dagli Investimenti Diretti Esteri che se da un lato risolvono i deficit strutturali della bilancia dei pagamenti, dall’altro vanno verso un percorso di liberalizzazione estrema. Nel dicembre del 2017 è stato rieletto il presidente liberale Juan Orlando Hernandez, dopo aver espressamente violato la Carta Costituzionale che vieta una ricandidatura e a seguito del lascia passare dei giudici della Corte Suprema, con 42,95% dei voti (a fronte di 41,42%). Presunti brogli elettorali avevano portato a forti scontri nel paese con almeno 17 morti registrati. 

Dopo un anno dalla fine dell’accordo con il FMI, l’Honduras è un paese più povero, più diseguale e caratterizzato dall’assenza di piani di crescita economica e sociale. La situazione è per molti versi peggiorata, le multinazionali ottengono permessi per maxiprogetti che hanno causato lo spostamento forzato soprattutto della minoranza nera garifuna che vive nella zona della Ceiba. La dipendenza dalle multinazionali è molto forte, non solo per licenze rilasciate senza vincoli soprattutto dopo la creazione di Zone Economiche Speciali (Zonas de Empleo y Desarrollo Economico) nel 2013, ma anche per i numerosi trattati di libero commercio che contribuiscono a creare una situazione di monocultura e dipendenza alimentare con un impatto negativo sul settore agricolo del paese. 

L’Honduras è l’ennesimo esempio di un paese che ha promosso, anche attraverso impulsi esterni, la liberalizzazione delle merci e dei capitali e che ha visto inasprirsi le politiche migratorie. I migranti scappano da un paese dove non si può più nemmeno camminare per strada. “Mi hanno deportato dalla Florida una settimana fa e sono tornato nel paesino della mia famiglia, a San Pedro non si può neanche camminare, ti ammazzano per un cellulare”, racconta Carlos, migrante honduregno appena deportato che si prepara a intraprendere il viaggio nuovamente a fine mese. Per la sesta volta, perché come dice Fray Tomas, attivista messicano, “scappano da una situazione dove non c’è speranza né possibilità di vita e torneranno per ogni volta che saranno deportati”. 

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