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Perché l’alt-left avrà successo dove i centristi falliscono

24 Maggio 2017

L’etichetta è intesa come un termine peggiorativo. Ma ciò non cambia il fatto che i populisti di sinistra esprimano la rabbia anti-sistema meglio di molti altri.

È possibile essere parte di un complotto politico senza neanche saperlo? Ho scoperto nei mesi scorsi che sono un membro della alt-left [sinistra alternativa]. Opinionisti come James Wolcott di Vanity Fair hanno provato a individuare i principali esponenti di questo movimento: una manciata di personaggi presi a caso su Twitter, Glenn Greenwald, Susan Sarandon, Tulsi Gabbard e Cornel West.

Non è affatto una cattiva compagnia, se posso dirla così. Secondo Wolcott, ciò che condividiamo è un debole per la Russia, una sorta di retorica “trumpiana” che prende di mira il liberalismo culturale e una sconvolgente opposizione a quella “zuppa di sigle della sicurezza nazionale CIA/FBI/NSA” in cui lui invece sembra nutrire molta fiducia. Gli scrittori del New York Magazine sono un po più coerenti nella loro definizione. Essi indicano Bernie Sanders, Jeremy Corbyn e Jean-Luc Mélenchon come bandiere della “alt-left”. Analiticamente, l’etichetta non ha molto senso. Dopo tutto, gli Stati Uniti non hanno un partito a base operaia, tanto meno socialista. Al suo posto, abbiamo avuto il partito democratico e i principali esponenti del partito democratico non hanno mai avuto molto interesse nell’associarsi con la sinistra.

I velenosi reazionari di internet [i sostenitori di Trump] hanno sfidato i conservatori e i tradizionalisti di Washington, proponendosi come “alt-right”. Ma non c’era dubbio che esistesse una vera “destra” prima di loro. A sinistra, invece, rispetto a chi noi saremmo “alt”? L’etichetta “alt-left” è semplicemente un insulto, un modo per confondere i nemici più tenaci dell’oppressione e dello sfruttamento negli Stati Uniti con coloro che invece intendono distruggere i diritti sociali e civili che abbiamo ancora. Ma il concetto allude a uno stile e un temperamento che sono reali – una volontà di esprimere una posizione anti-establishment e di rompere con “la solita politica” in un modo molto più radicale rispetto a quanto proposto da Trump.

Naturalmente, in un momento di crescita dell’autoritarismo, è comprensibile che gli opinionisti liberali siano preoccupati rispetto ad alcune forme di populismo anti-establishment. Il crollo di un ordine ingiusto non significa che necessariamente qualcosa di meglio prenderà il suo posto. Ma le figure politiche spesso presentate come leader dell’alt-left hanno ben poco a che spartire con i troll vendicativi dell’internet reazionario con cui le si vuole associare.

Bernie Sanders, Jeremy Corbyn e Jean-Luc Mélenchon hanno guadagnato ampie basi di consenso,  attraverso campagne che hanno messo al loro centro un programma socialdemocratico a favore della protezione dei lavoratori, di una rete di sicurezza sociale e di un maggior coinvolgimento delle persone nelle decisioni che influenzano la loro vita quotidiana. Questa non è politica estremista; non è politica demagogica. È una politica che può ottenere l’appoggio di decine di milioni che sentono che la politica attuale non funziona e che potrebbero essere altrimenti tentati dalla destra populista.

Né è questa una politica sorda alle domande delle minoranze: di fatto le minoranze in difficoltà hanno semmai bisogno di maggiore spesa pubblica a livello federale per il loro welfare e l’istruzione pubblica. Convincere gli elettori richiede organizzazione e mobilitazione; ma è una fantasia dei liberali pensare che i lavoratori neri e asiatici non si preoccupino di quella roba di cui si preoccupa la classe operaia bianca come il lavoro, la sanità e la casa.

Questo appeal universalista non è qualcosa di cui dovremmo vergognarci – è la chiave della nostra politica. I lavoratori di tutto il mondo sviluppato sono stati abbandonati da decenni di globalizzazione nell’interesse delle multinazionali. Hanno visto i loro salari ristagnare e il loro lavoro diventare sempre più precario. Che uno sia o meno d’accordo con la loro proposta, è evidente che i socialisti offrono un chiaro rimedio a questo problema: una politica che non respinge la diversità e il progresso, ma assicura che nessuno sia lasciato indietro.

La gente è arrabbiata e la sinistra non può permettersi di non parlare a quella rabbia. Lo facciamo con una strategia coerente dietro di noi – oltre un secolo di esperienza utilizzando la lotta di classe per ottenere concessioni da élite altrimenti pronte a fregarsene del destino di interi settori del paese. Tuttavia, per opinionisti che non hanno problemi a condurre una vita agiata in mezzo alla sofferenza di milioni di persone, ciò ci renderebbe uguali a coloro che usano il malcontento per alimentare il razzismo e la xenofobia.

È chiaro che il centro liberal è a corto di idee. Dimenticatevi delle soluzioni – non una volta Walcott parla del malessere sociale che potrebbe aver portato tanti cittadini a disertare le urne lo scorso novembre, o (meno probabilmente) votare per Donald Trump. La sua critica contro di noi si riduce a un rimprovero per la maleducazione dell’alt-left, la nostra incapacità di riconoscere la grandezza di Meryl Streep e la mancata accettazione del fatto che la Russia di Vladimir Putin  è il “vero impero del male”. Sono le critiche di una classe di opinionisti da strapazzo, la cui politica non ha nulla di tangibile da offrire alla gente comune.

Siamo di fronte a una sfida al sistema che verrà risolta in un modo o nell’altro. Il vecchio sta morendo e il nuovo non nascerà nei discorsi alla cerimonia dei Golden Globes. Per quanto incerta e ancora inadeguata, l’alt-left, così come la definiscono gli scrittori di New York Magazine e Vanity Fair, non è nient’altro che la sinistra e sembra essere sempre di più l’unica speranza per la modernità (e la democrazia).

Pubblicato su The Guardian il 15.5.2017. Traduzione di Paolo Gerbaudo. 

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