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L’espansione della ‘Ndrangheta, tra oscurità e fraintendimenti

27 Settembre 2017

Gli avvenimenti di Seregno hanno fatto irruzione in un dibattito politico ed elettorale che sembrava poco interessato al tema della criminalità organizzata. A Seregno, comune di 40.000 abitanti della Brianza, il sindaco è finito agli arresti domiciliari in seguito a un’inchiesta che ipotizza forti legami tra settori dell’amministrazione comunale, il costruttore Antonino Lugarà e appartenenti a clan ‘ndranghetisti.

Va ripetuto come giusto e necessario che ognuno è innocente fino al terzo grado di giudizio, che le corti mediatiche non possono sostituirsi alle corti giudiziarie, e via discorrendo. Allo stesso tempo, le notizie di oggi non sono certo un fulmine a ciel sereno. O più precisamente: possono apparire come un fulmine a ciel sereno solo dal punto di vista di un dibattito pubblico che ormai da tempo ha relegato il tema della mafia e della sua espansione ad argomento marginale.

La ‘Ndrangheta: la mafia nota per il fatto di non essere nota

La ‘Ndrangheta al nord esiste da tempo. Processi giudiziari, indagini sociologiche, decreti di scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazione mafiosa – il primo a Bardonecchia nel lontano 1995 – hanno portato alla luce un’espansione mafiosa diffusa in regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e infine l’Emilia. In rapporto a quest’ultima regione, è emblematico il caso di Brescello, comune sciolto per infiltrazione mafiosa nel 2016. Una notizia che ottenuto una discreta copertura mediatica iniziale, grazie al fatto che  Brescello è il comune di Don Camillo e Peppone. Il che ha reso possibile prevedibili battute sul passaggio da Don Camillo a “Don” di ben altra natura.

Per il resto, poco o niente, come spesso accade quando si tratta di ‘Ndrangheta. Una mafia nota essenzialmente per il fatto di non essere nota. La camorra ha la sua Gomorra, col relativo traino mediatico dell’odio-amore suscitato da Saviano. Cosa nostra ha il suo “Padrino”, nonché una sfilza di serie tv e fiction dalla qualità più varia, da “La piovra” a “Squadra antimafia”, da “I Sopranos” fino a “L’onore e il rispetto”.

Che forma ha invece la ‘Ndrangheta nei media e nelle discussioni pubbliche? La forma di brevi notizie di arresti, operazioni anti-droga, qualche omicidio eclatante (l’uccisione del vice Presidente del Consiglio Regionale calabrese Francesco Fortugno nel 2005, la strage di Duisburg nel 2007) e numerosi omicidi considerati fisiologici e qualitativamente irrilevanti (tanto “si ammazzano tra loro”). Qualche memoria ancestrale della stagione dei sequestri degli anni ‘70 e ‘80, nessun ricordo collettivo legato alla mattanza di Reggio Calabria nella seconda guerra di Mafia tra il 1985 e il 1990 (alcune stime parlano di 900 morti). Qualche reminiscenza, per i maniaci del pallone, delle parentele scomode dell’ex Lazio, Genoa e Juventus Giuseppe Sculli (nipote del boss di Africo, Peppe “Tiradrittu” Morabito) e delle disavventure di alcuni membri della famiglia Iaquinta. Davvero poco altro.

La ‘Ndrangheta, l’associazione criminale italiana probabilmente più rilevante al giorno d’oggi per volume d’affari, capacità di infiltrazione ed espansione nelle regioni del centro-Nord e in paesi come Germania, Australia e Canada, non ha mai conosciuto il privilegio di essere oggetto di discussione e dibattito nei luoghi in cui si forma buona parte dell’opinione pubblica nazionale: il bar, i salotti tv, i post di Facebook degli influencer ed i relativi dibattiti ad essi collegati.

Fraintendimenti pericolosi

Non sappiamo quando, come e perché, ma magari un giorno la ‘Ndrangheta entrerà nel dibattito pubblico nelle sue variopinte forme. Diverse correnti di pensiero, diversi partiti, diversi interessi si contenderanno l’egemonia della rappresentazione di questa bizzarra e apparentemente taciturna mafia. È molto probabile che quando tutto ciò accadrà, – e forse piano piano già qualcosa sta accadendo – qualcuno tenterà di incanalare il senso comune verso interpretazioni preconfezionate della “mafia” in generale. Interpretazioni che magari hanno anche un’apparenza di coraggio, di forza morale, di progressismo, ma che nascondono in realtà forzature più o meno involontariamente funzionali alla protezione di alcuni interessi. Poiché prevenire è sempre meglio che curare, può essere utile una breve rassegna di queste potenziali interpretazioni vincenti, e dei possibili usi pericolosi ai quali si prestano.

Prima tesi: “La Mafia in generale, la ‘Ndrangheta in particolare, è una questione culturale”.

Tesi vecchia quanto le mafie italiane stesse. Che oggi incontra un problema: se la ‘Ndrangheta è il prodotto di una determinata subcultura, perché alcune ‘ndrine funzionano altrettanto bene in culture apparentemente così differenti? Perché un clan originario dell’Aspromonte riesce a radicarsi nell’hinterland milanese?

La risposta a questa domanda è la cosiddetta “metafora del contagio”, espressione che dobbiamo al sociologo Rocco Sciarrone, il quale contesta questa ipotesi. La mafia è come un batterio che infetta una società sana, ad esempio la società di un piccolo comune lombardo. Il batterio morirebbe subito a contatto con un ambiente culturale estraneo, ma le grandi migrazioni dal meridione offrono una chance di sopravvivenza a questo pericoloso ospite. Attraverso l’emigrazione di massa, si stabiliscono nella cittadina ipotetica delle comunità calabresi, la cui cultura è compatibile con quella del germe mafioso. All’interno di queste “nicchie ambientali” favorevoli, il batterio può sopravvivere, proliferare, rafforzarsi, fino a contagiare anche gli ambienti sociali estranei alla mentalità meridionale.

Si tratta di una tesi avvincente, antica, utile. Avvincente, perché rappresenta l’espansione mafiosa come invasione, infezione, colonizzazione, come la storia di una comunità innocente che subisce l’attacco di un nemico infido ma in fin dei conti sempre estraneo. Antica, perché la ritroviamo addirittura in un testo degli anni ‘60 dell’800[1]. Utile, soprattutto per la comunità attaccata dal morbo, in quanto offre un assist chirurgico per ogni tentativo di deresponsabilizzazione: “la mafia è incompatibile con il nostro DNA”; “abbiamo gli anticorpi, con una cura di antibiotici estirperemo per sempre l’infezione”; “siamo tutti persone oneste che non vogliono essere avvicinate a questo fenomeno marginale”, ecc.

Come  mostrano i lavori fondamentali di Rocco Sciarrone e Federico Varese, il culturalismo rischia soprattutto di offuscare il funzionamento concreto dell’espansione mafiosa: le relazioni tra mafiosi e “colletti bianchi”, il rapporto con le istituzioni, la commistione di interessi. Dimensioni concrete del fenomeno, che rischiano di essere sorvolate dal vocabolario medico del contagio, degli anticorpi, della malattia. E soprattutto dal presupposto che la società “vittima” del contagio è una società totalmente sana, onesta, pulita, prima del contatto con i mafiosi e le loro comunità.

Seconda tesi: “La ‘Ndrangheta è una multinazionale del crimine: pensa solo ai soldi e ha abbandonato la violenza”.

Ognuna delle interpretazioni qui discusse non è mai totalmente falsa. Il discorso vale a maggior ragione per questa seconda interpretazione. È vero che i soldi e gli affari sono fondamentali, e che probabilmente nessun conflitto tra clan avviene nella totale assenza di un movente economico. Il piano di Carmine Novella di rendere la ‘Ndrangheta lombarda autonoma rispetto alla “mamma” calabrese fu avversato certo per motivi simbolici e politici. Ma c’erano sicuramente anche i soldi di mezzo, i soldi che il mantenimento del contatto diretto tra Sud e Nord rende possibili. Allo stesso tempo, ci sono momenti in cui i soldi del Nord vanno dirottati per esigenze non strettamente economiche. Nel libro-intervista curato da Ombretta Ingrascì[2], il boss della ‘Ndrangheta milanese, Emilio Di Giovine, racconta della quantità ingente di soldi e armi inviata a Reggio Calabria al fine di armare la sua famiglia impegnata nella seconda guerra di mafia. Moderno, mondano, per certi versi cosmopolita, Di Giovine dirotta tempo e risorse dai suoi business alla mattanza di Reggio. Questo comportamento delinea un comportamento disinteressato? Probabilmente no. Ma questo non significa che esista qualcosa come un movente economico esclusivo e totalizzante.

Prendendo il termine in prestito da Gramsci, possiamo affermare che le interpretazioni “economiste” della ‘Ndrangheta rischiano di veicolare un’immagine falsata. L’immagine di un’organizzazione criminale che si siede nei consigli di amministrazione, e non più nei bar del vibonese o del Centro-Nord va rivista.  Metafora per metafora, possiamo pensare che al contrario proprio la capacità di sedersi a entrambi i tavoli costituisca la forza della ‘Ndrangheta.

Terza tesi: “La ‘Ndrangheta è ovunque”.

Tesi falsa, a tratti infamante, paradossalmente assolutoria. Se la metafora del contagio dissolve la responsabilità delle società del Centro-Nord grazie all’immagine dell’invasione e della colonizzazione dall’esterno, l’idea del “tutto è mafia” vede colpe e responsabilità ovunque. Bisogna ammettere che siamo tutti mafiosi, e che lo siamo sempre: da quando compriamo l’auto dalla concessionaria di nostro cugino invece che dal concorrente più conveniente, a quando chiediamo alla maestra di non dare compiti per un giorno a nostro figlio perché c’è il matrimonio dello zio a Benevento. Siamo tutti mafiosi, e la mafia vera è quella che sta a Roma.

Certo, anche questa tesi ha un fondo di verità: la ‘Ndrangheta non funzionerebbe e non si espanderebbe se non ci fosse un sistema ampio di cooperazione e complicità a vari livelli. Ma le parole chiave qui sono “ampio” e “a vari livelli”. Ampio, non totale. A vari livelli: l’impiegato delle poste che non dice niente quando il malavitoso passa avanti alla fila in pasticceria non può essere paragonato all’imprenditore colluso che richiede attivamente alcuni servizi mafiosi per sé e per i propri amici[3].

Inoltre, questa tesi del “tutto è mafia” è uno dei grandi classici dei mafiosi stessi. Basti pensare alle bizzarre, a tratti sgangherate, ma a modo loro interessanti interviste di Klaus Davi a personaggi vicini ad alcune grandi casate ‘ndranghetiste: ripetono spesso “ma chi è che non è mafioso fino in fondo? Ma scusi perché non va a cercare i mafiosi veri a Roma?”, e così via.

Purtroppo o per fortuna, non è vero che la mafia sia ovunque. I mafiosi si comportano in modo specifico, e interagiscono in vari modi con persone e gruppi sociali di vario tipo. A volte negoziano, a volte dominano, a volte costruiscono imprese e progetti con il sostegno attivo di imprenditori, politici e professionisti “bene”. A volte questi professionisti trattengono a malapena il loro entusiasmo per questo contatto con il mondo della malavita. In un’intercettazione di pochi anni fa, la consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini racconta al padre della visita del boss Nicolino Grande Aracri. Non ci sono solo i soldi – cruciali ovviamente all’interno della loro relazione – ma c’è anche un senso di riconoscimento e realizzazione suscitato rispetto mostrato dal potente boss. Altre volte i contatti sono contingenti, sporadici, il tempo di chiudere un affare. I rapporti di collusione sono tanti, sono vari, sono complicati.

L’affermazione: “la Mafia è ovunque” passa una mano di vernice sulla diversità di questi rapporti, rendendone impossibile la comprensione. Spalma su tutta la società le responsabilità, di fatto annullandole. E, soprattutto, ostacola l’emergere delle domande politicamente e scientificamente fondamentali: quali gruppi sociali del Centro-Nord interagiscono con la ‘Ndrangheta? Di che tipo di interazione si tratta? Quali contesti sociali ed economici favoriscono la collusione? La ‘Ndrangheta è l’anti-stato, o è il necessario completamento di uno stato inefficiente?

Sarà bene discutere queste domande non solo a livello accademico[4], giornalistico, o addirittura narrativo[5] e cinematografico[6]. È bene che queste domande entrino nella discussione pubblica e politica, che sembra sempre orientata altrove. Altrimenti ci ritroveremo ancora immersi in uno strano senso comune, che ci fa giustamente commuovere e arrabbiare quando ricorrono gli anniversari delle stragi mafiose, ma rimane estraneo agli eventi poco spettacolari attraverso i quali si costruisce e si consolida il potere di quella strana mafia, nota per non essere nota.

 

[1] “[La mafia] la credo contagiosa, perché si è pur troppo veduto a Palermo qualche continentale dell’Alta Italia che ha tentato di smentire la fama di onestà che si sono giustamente acquistata le province subalpine praticando qui la sublime camorra”. La citazione va attribuita al medico romano Francesco Maggiorani, ed è tratta dal libro di Francesco Benigno, La mala setta

[2] Ombretta Ingrascì, “Confesioni di un padre” (2013).

[3] Vedi, ad esempio, la posizione dell’imprenditore Perego nel processo “Infinito”, descritto nell’articolo di Eleonora Montani, “Partecipazione e concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso: un confine liquido” (2016).

[4] Ad esempio i testi di Rocco Sciarrone, “Mafie vecchie, mafie nuove” (2009), e “Mafie al Nord”, di cui Sciarrone è curatore (2014), e il volume di Federico Varese “Mafie in Movimento” (2011).

[5] Vedi l’utilissimo romanzo di Danilo Chirico, Chiaroscuro (2017).

[6] Vedi il coraggioso e bello Anime Nere (2014).

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