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Lo spettro della UE. 1 – La blindatura

17 Dicembre 2018

Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della Unione Europea. A pochi mesi dalle elezioni europee di maggio 2019 pare sempre più probabile che le forze anti-UE facciano il pieno di voti, arrivando forse persino ad insidiare il dominio che le famiglie politiche tradizionali (conservatori del Partito popolare europeo e progressisti) hanno sempre mantenuto sulle istituzioni comunitarie.

A fronte di questo scenario quello che colpisce in Italia è il contrasto fra un lavorio febbrile di riposizionamenti, scissioni e iniziative per costruire liste e un dibattito sui temi assai modesto, quasi inesistente. In pratica le elezioni europee sono considerate come un prolungamento della competizione politica che si svolge a livello nazionale. Persino il contrasto fra le istituzioni comunitarie e la maggioranza di governo non spinge ad una riflessione più approfondita sulla natura degli assetti europei. Nel migliore dei casi si dibatte sulla idea di “Europa”, non su quella reale. La realtà della UE diventa – appunto – spettrale e impalpabile. Un fantasma.

La cosa appare tanto più preoccupante se si considera che solo pochi anni fa, a ridosso della crisi economica del 2007-2008, si sviluppò un certo dibattito circa la forza degli assetti finanziari sulla società e sulla economia reale. Quando dal 2009 il focus si spostò sullo scacchiere europeo, rendendo popolari termini quali spread, rating e simili, fu come se si sollevasse un velo di menzogne che oscurava la realtà di una UE dominata dalle banche e dalla Germania. 

Gli anni chiave per l’Italia sono stati 2011-2012 col passaggio dal traballante esecutivo di Berlusconi a quello di Monti, forte della più ampia maggioranza del periodo storico recente,  col definitivo, esplicito allineamento del PD alle forze dominanti. Una convergenza delle forze politiche di sostegno al mainstream costellata di allarmismi bugiardi e coronata tanto dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione quanto dalla riconferma, disastrosa ed avvilente, del funesto Napolitano alla presidenza della Repubblica.

Negli stessi anni partiva la grave crisi greca che con il trionfale successo di Syriza a inizio del 2015 e il suo drammatico allineamento spostava l’agenda politica sulla UE e sui suoi meccanismi. Forum e bacheche FB si riempivano di “esperti” di default, titoli pubblici, Trojka e BCE. Molta improvvisazione ma anche buona volontà, e interesse. Nonostante le remore europeiste di gran parte delle sinistre il già caldo dibattito sul debito veniva in parte sostituito dal tema dell’euro, del modello di società rappresentato dalla UE e di come ciò impattasse sulle condizioni di lavoro e vita di gran parte della popolazione. Migliaia di persone hanno visto i documentari Debtocracy e Catastroika che svelavano come i meccanismi della finanziarizzazione e delle istituzioni della Troika (Commissione UE, FMI, BCE) stavano strangolando i popoli europei, non solo i greci.

La resa di Syriza aveva creato un dibattito in cui alle tradizionali posizioni europeiste della sinistra (tanto antagonista quando di governo) si opponeva l’inoppugnabile argomentazione che un governo nato per rovesciare l’austeritá e opporsi ai diktat della Trojka aveva cercato un accordo ma aveva trovato un muro granitico, subendo una sconfitta ignominiosa. 

La posta in gioco era straordinaria. L’economista Emiliano Brancaccio aveva ammonito che occorreva capire non solo come opporsi ai trattati europei ed alle politiche antipopolari da esse derivanti, ma come operare una rottura in grado di stabilire un assetto alternativo. Perché, ammoniva, “se effettivamente Syriza, cioè un partito della sinistra europea, si ritrovasse con una responsabilità di governo e non avesse un piano B, è la fine storica della sinistra” (incontro di fine 2014, di lì a qualche mese il partito di Tsipras avrebbe effettivamente vinto le elezioni). Aveva più ragione di quanto non si pensasse. Ma per capire il perché occorre fare un passo indietro. Anzi, diversi.

Nel loro recente testo Barba e Pivetti hanno mostrato quanto fosse manchevole la cultura economica dei partiti storici delle sinistre negli anni della Prima Repubblica. Nel periodo successivo, mentre la componente più di establishment di esse si era rapidamente allineata al pensiero dominante, incamminandosi per la china che avrebbe portato al dominio di Matteo Renzi, quella meno accomodante si era riconfigurata come un insieme di forze molto ostili al sistema dominante ma egualmente prive di grandi strumenti per capire con profondità il quadro economico. Una tendenza che l’abbraccio col “movimento dei movimenti” avrebbe enfatizzato.

Il dato più eclatante è che le politiche economico-sociali dall’inizio degli anni Ottanta divengono in misura crescente completamente indifferenti al mutamento di maggioranza politica, diventando esse sinonimo di privatizzazioni, taglio alla spesa sociale, deregolamentazioni e affinamento dei meccanismi di finanziarizzazione. La convergenza di destra e sinistra di governo non passò inosservata: il sociologo Marco Revelli aveva scritto nel suo testo del 1996 Le due destre che le due coalizioni stavano diventando due sponde istituzionali per la ristrutturazione del mondo del lavoro.

Il fatto che il passaggio delle leve del potere da destra a sinistra (e viceversa) non abbia comportato alcun mutamento apprezzabile (in gran parte dei paesi e non solo in Italia)  sul piano di lavoro, politiche economiche e finanza avrebbe dovuto far pensare a cause più profonde e strutturali che non fossero il “tradimento” degli ideali politici degli apparati dei partiti o la deludente qualità umana della classe dirigente.

Ma quindi di che si trattava? Un gran numero di analisi indica che a livello globale si sono imposti meccanismi quali le dinamiche di finanziarizzazione (promozione dell’indebitamento privato come surrogato degli aumenti salariali e aumento della accumulazione di ricchezza secondo modalità puramente finanziarie) e di progressiva apertura commerciale (crescita di % del PIL coinvolto in scambi esteri) che hanno chiuso in maniera drastica gli orizzonti della scelta politica, tagliando la concreta prospettiva di alternative di governo e scaricando i costi del sistema essenzialmente sul lavoro.

Il significato politico di ciò è l’aver gettato via ogni prospettiva keynesiana e aver trasformato la sfera economico-finanziaria in un sistema autoreferenziale, contrapposto al benessere di cittadini e lavoratori quanto impermeabile al voto e ai meccanismi democratici.

Per gli elettori si tratta di una scoperta traumatica. È come scoprire che la cabina del pilota in aereo è vuota durante il volo. Per le fazioni politiche significa continuare ad accreditarsi come reciproche alternative quando il sistema non consente grandi variazioni su temi come tutela del lavoro, diritti, welfare, redistribuzione della ricchezza; per cui o si dirotta l’attenzione verso temi di secondo piano o si stende un velo di finzione sul reale comando economico, tinteggiando la stessa cosa di una verniciatura emancipativo-progressista o patriottico-identitaria. Offrendo per esempio spettacoli quali segretari di partiti postcomunisti vantarsi delle privatizzazioni e del rigore e partiti di destra non levare un fiato, anzi avallare i meccanismi che favoriscono il trasferimento di industrie fuori dal paese. 

Ma nemmeno i soggetti più radicali riuscirono a reagire, limitandosi a condurre la propria lotta politica negli interstizi residuali con battaglie generose ma poco rilevanti sul  quadro economico generale. Uno dei motivi consiste nella mancata connessione fra le politiche dominanti e la struttura giuridico-politica che le sostiene: l’Unione Europea.

Tanto le politiche neoliberiste quanto la austerità che di esse è l’acutizzazione drammatica sono diffuse in tutto il mondo. Ma la forma peculiare che assumono nel nostro continente è l’integrazione europea, come dispositivo di dislocazione della sovranità in ambiti tecnocratici e di blindatura delle norme che impediscono una alternativa al sistema dominante.

  1. Continua

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