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Lo sviluppo impossibile e la finanziaria del governo giallo-verde

7 Dicembre 2018

La marcia indietro del governo giallo-verde di fronte ai diktat di Bruxelles – ma sarebbe più consono parlare di una disordinata e precipitosa ritirata – interroga ancora una volta tutte le forze politiche e sociali circa le possibilità di sviluppo economico del Paese all’interno del quadro dell’Unione monetaria. Tralasciamo ogni considerazione sulle reali potenzialità espansive che l’impianto originario della manovra avrebbe o meno garantito. Un mese di spread ballerino, accompagnato da ultimo dalla rivolta del cosiddetto “partito del PIL”, sono stati più che sufficienti per far recedere la compagine governativa dalla velleità di innestare il “cambiamento” a base di flat tax, riforma delle pensioni e reddito di cittadinanza. L’UE ha del resto attribuito all’Italia un output gap positivo per il 2019, il che significa, al di là del latinorum, che secondo la burocrazia di Bruxelles l’Italia nel giro di un anno sarà nel pieno della proprie capacità produttive ed occupazionali (sic). Dunque, di che ci lamentiamo?

Tutti a inneggiare allo sviluppo. Ma come avviarlo in pratica? Lo Stato ha le armi spuntate. Il finanziamento degli investimenti tramite il ricorso al prestito pubblico con la messa sul mercato dei titoli non regge alla pressione dello spread. Si ha un bel dire che per mantenere entro livelli accettabili il rapporto tra deficit e PIL sarebbe giunto il momento di agire sul moltiplicatore, cercando di far lievitare il Prodotto Interno Lordo invece che tagliare sul bilancio. Viviamo da lustri in regime di avanza primario, cioè lo Stato prende ai cittadini più di quanto poi restituisce loro in termini di servizi. Ma la mannaia di Bruxelles ha preso ad agire preventivamente, come il caso dell’ultima manovra ha ben illustrato. Rassicurare i creditori, cioè i grandi gruppi finanziari che investono nei titoli di Stato: questa la variabile indipendente che regge la costituzione economica dell’Europa reale. 

Agire sulla tassazione in senso progressivo, andando a pescare i soldi “dalle tasche di chi li ha” è diventato un luogo comune. Sicuramente una riforma delle aliquote dovrebbe stare al centro del programma di qualsiasi governo progressista. Ma dagli esisti dubbi, giacché all’interno dello spazio di Maastricht i capitali sono liberi di muoversi liberamente (ex lege, non solo in base ai rapporti di forza), per cui uno Stato che volesse colpire i grandi profitti assisterebbe presumibilmente ad uno sciopero degli investimenti e ad una fuga di capitali, con ben pochi strumenti a disposizione per frenare l’emorragia.

A questo si aggiunga che le privatizzazioni occorse nel settore bancario – a partire dalla Legge Amato – Carli (n. 218 del 30 luglio 1990 ) che trasforma le banche con forma di istituti di diritto pubblico (BNL, MPS ed altre grosse e meno grosse) in SpA – hanno privato lo Stato di una ulteriore leva utile a indirizzare gli investimenti a fini di sviluppo, favorendo invece la speculazione finanziaria.

Ecco dunque smascherato il vero portato dell’austerità: affidare al solo profitto privato il compito di innescare la miccia dello sviluppo. Ma il capitale privato per accelerare gli investimenti ha bisogno di condizioni favorevoli, e cioè – in assenza di una legislazione pro-labour che obblighi la competitività a svilupparsi lungo l’asse dell’innovazione – bassi salari, ampia disponibilità di manodopera disoccupata e meno regole (non solo del mercato del lavoro, ma anche, ad esempio, ambientali). Si dà però il caso che questa ricetta, oltre ad essere fallita sul piano empirico, non pare più coniugabile col mantenimento del consenso democratico. Tanto è vero che leadership assurte al potere sull’onda di successi elettorali travolgenti vedono la loro spinta propulsiva riassorbita vorticosamente nel giro di pochi mesi – Renzi e Macron docent. In questo quadro l’unica spesa accettata, di carattere regressiva, è quella della quale ogni governo degli ultimi anni ha abusato, quella cioè per gli incentivi: un trasferimento netto di soldi dai bilanci dello Stato alle tasche degli imprenditori, pagato dai normali cittadini attraverso i tagli ai servizi pubblici essenziali.

Questo il vicolo cieco (interessato) nel quale ci hanno trascinato i nostri gruppi dirigenti, e al cui interno l’attuale governo si dibatte senza idee, e soprattuto senza che il salvinismo, il vero soggetto egemone, abbia la forza per rompere dopo 25 anni con un blocco sociale che in questa situazione ha bene o male prosperato.

La soluzione non nasce certo da sé, anche perché l’opposizione di “sinistra” è identificata a ragione come il più coerente alfiere della via italiana all’austerità. Bisogna mettere in campo un soggetto totalmente al di fuori dagli schemi, che a partire da gruppi dirigenti nuovi  e da un programma credibile ed allo stesso tempo radicale sia in grado di guidare un cambiamento reale e non solo sbandierato. Senso Comune si sta attrezzando.

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