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Partite Iva: benvenuti nel nuovo Ottocento

31 Dicembre 2016

Col la crisi iniziata nel 2008 si è aggiunto un altro tassello, che sembra indicare un vero e proprio cambiamento di modello. Non si tratta semplicemente della deregolazione del lavoro, tanto nei diritti che nelle forme organizzative. Siamo di fronte a qualcosa di più profondo, di cui la deregolamentazione è solo l’aspetto più immediatamente visibile: l’elevazione a modello ideale del rapporto di lavoro autonomo.

Oggi viene rimesso al centro il lavoratore come singolo, il quale contratta personalmente le forme e i compensi del proprio lavoro nei confronti del datore. La forma più tipica è quella delle partite IVA, in particolare di quelle che non fanno parte di un ordine professionale. Né professionisti nel senso classico del termine né artigiani, le partite IVA sono lavoratori il cui tratto distintivo è la subalternità. Il pensiero dominante ne esalta la figura di lavoratore libero, in grado di giocarsi la propria partita sul mercato.

Nella realtà la situazione è ben diversa. La gran parte dei nuovi lavoratori autonomi sono persone che non trovano altra forma di occupazione. Spesso si sono sempre pensati come dipendenti, ma sono obbligati a trasformarsi in autonomi per poter lavorare. Nella pratica, una quota sempre maggiore del lavoro subordinato classico viene spinto nel campo dell’autonomia.

Questo consente di spingere al massimo la flessibilità e di scaricare buona parte dei rischi di impresa sul lavoratore, il quale di autonomo ha solo la facciata, dipendendo in tutto è per tutto dai committenti. Ancor più spesso da un committente unico, il quale detta i compensi, i tempi e i modi di lavoro, e si solleva anche dal carico dei contributi assicurativi e previdenziali, scaricati sul lavoratore.

Un nuovo universo di subalterni popola ormai le città e la società, che si accresce a dismisura con l’utilizzo dei voucher, che mettono ancora al centro la figura del lavoratore singolo e autonomo che contratta in solitudine l’ammontare dei buoni che potrà riscuotere per la prestazione svolta. Un vero è proprio boom che segnala ancora una volta quanto non di espedienti si tratti ma di veri e propri modelli organizzativi.

Dunque si torna al lavoratore isolato, singolo, individualizzato, non tutelato da forme contrattuali collettive, autonomo solo dal punto di vista fiscale. Il termine “tornare” non è una parola scelta a caso. Perché è già esistito un tempo con le stesse caratteristiche di fondo: nell’Ottocento. Quando il lavoratore era un’individualità, veniva assunto per accordo personale, spesso non scritto, senza contratti di riferimento.

Sia ben chiaro. I lavoratori subalterni hanno messo in campo una loro razionalità all’interno del nuovo contesto. Ma anche questa non è una novità. La capacità di azione razionale e indipendente, è una costante dei subalterni in ogni tempo e luogo. Tuttavia il fatto di imparare a muoversi all’interno del nuovo contesto – per ragioni di sopravvivenza – non va confuso con una adesione consapevole.

Affermare che ci sia una spinta razionale alla precarizzazione da parte delle sue stesse vittime è fuorviante. La spinta razionale va semmai nella direzione opposta, e pesca anch’essa nelle suggestioni e negli esempi del proprio passato. Parlate con i lavoratori autonomi. Vi racconteranno che vogliono tutele, garanzie, regolamentazione del proprio lavoro, contratti di riferimento.

Se il sistema ha pescato nell‘Ottocento in cerca di modelli da riattualizzare per massimizzare i profitti, tutto ci invita a fare lo stesso, ripescando nell’Ottocento dei subalterni le tracce di pratiche e rivendicazioni nuovamente all’ordine del giorno. Puntando a superare la frammentazione del lavoro individualizzato e muovendo verso la costruzione di nuove alleanze sociali. Lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti, artigiani e commercianti sono ormai parte della stessa precarietà.

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