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Riapriamo il campo delle alternative politiche

13 Settembre 2019

In base a un recente sondaggio Ipsos (12 settembre 2019), il governo Conte bis non piace al 54% degli italiani. La Lega rimane il primo partito, seguita da Pd e M5S. Nel complesso, le forze sovraniste-populiste (Lega+M5S+Fratelli d’Italia) raggiungono circa il 60%. 

Nonostante le difficoltà politiche e la virata “governista” di Podemos e Cinque Stelle – tanto per citare due forze politiche le cui vicende sembrano le più atte ad assurgere a paradigma della crisi populista –, è insomma del tutto indebito salutare la nascita del secondo governo Conte come il ritorno della “politica vera”, sobria, razionale, responsabile. Una rappresentazione, questa, non solo superficiale, ma anche eminentemente retorica, se non “populista”.   

La realtà è che la cosiddetta finestra populista non si chiude finché non si risolve la crisi organica che l’ha originata. Solo che – il che è cruciale per definire la correttezza metodologica di ogni analisi politica –, la crisi è la specifica arte di governo dell’egemonia neoliberale. Come afferma Dario Gentili, infatti, «l’ordine spontaneo di mercato è una forma di governo a tutti gli effetti, che ha in sé stesso il proprio principio d’ordine e, quindi, si auto-genera, si auto-regola e si auto-organizza. Una mera definizione economica di mercato – che Hayek chiama taxis – potrebbe non rendere appieno che il suo è un ordine di governo, un cosmos» (Gentili 2018, 86).

Che significa esattamente in termini di azione politica? Anzitutto, che non è possibile fare politica al di fuori dell’idea di crisi, la cui vaghezza semantica (crisi può essere applicato a qualunque ambito della vita associata: “crisi economica”, “crisi politica”, “crisi dello Stato”, “crisi dei valori”, ecc) è strategicamente fondamentale per accreditare un’idea di emergenza permanente e a ogni livello dell’esistenza individuale e collettiva. La crisi ha la caratteristica di disporre «senza porre sé stessa in sé stessa, cioè senza porre il proprio significato; si riferisce ogni volta a condizioni eterogenee che l’hanno prodotta, senza che tuttavia gli elementi che dispone siano esclusivamente di natura concettuale» (Gentili 2018, 23). La crisi, in sostanza, è un dispositivo foucaultiano, «un insieme decisamente eterogeneo, che comporta discorsi, istituzioni, pianificazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche; in breve, il detto ma anche il non-detto» (Foucault 1977, 156). 

Rispetto alla crisi, il populismo non è altro che una forma reattiva: il tentativo di riattivare la politica all’epoca del grado zero della politica come decisione; di recuperare una dimensione di sovranità alla politica in un tempo nel quale il potere politico ha assunto la configurazione della mera amministrazione e «la crisi è diventata pertanto la forma del “giudizio politico”» (Gentili 2018, 25). 

A fronte di tutto ciò, com’è possibile sostenere che il tempo del populismo sia finito? Quale rottura epocale farebbe immaginare la fine dell’egemonia neoliberale e quindi del dispositivo della crisi che ne costituisce lo strumento di dominio sulle masse?

L’annullamento della «sostanza della società», per usare le parole di Polanyi, ha avuto il non secondario effetto di annullare anche la “sostanza della politica”.  A prevalere, nella società della crisi neoliberale, è, dunque, la ragion di Stato (neoliberale), e non la politica: una distinzione, questa, tutt’altro che accademica. Ciò che è avvenuto, nell’ultimo trentennio di egemonia oligarchica, è che le classi dirigenti abbiano abbandonato il terreno della rappresentanza e scelto la chiusura a difesa di un assetto postdemocratico, in cui l’esecutivo prevale sul legislativo, gli spazi e gli enti pubblici sono privatizzati/aziendalizzati, i mercati regnano sovrani sui valori e le relazioni tra persone, il potere non è trasparente e nemmeno esigibile. È questo ad aver dato spazio politico al populismo, le cui caratteristiche di eterogeneità, irrazionalità, brutalità, ecc., non sono altro che il riflesso speculare degli attributi degli animal spirits del capitale. 

Come il capitale non è né di destra né di sinistra, così anche il populismo rifiuta la tradizionale rappresentazione dell’asse politico sull’opposizione dei significanti “destra”-“sinistra”. Rilanciare, oggi, una rinnovata vitalità dell’idea di sinistra (o di destra) è semplicemente ragionare in modo apolitico, cioè pensare in modo astratto e irrelato rispetto alla realtà politica, che è quella resa possibile dalla governamentalità reale del neoliberismo. È dimenticare le masse e la necessità, più volte ricordata nelle opere di Edward H. Carr, di pensare la politica sempre in rapporto al potere reale. Lo storico inglese chiamava in causa persino Lenin per dire che «è là dove sono le masse – non migliaia, ma milioni di persone – che ha origine la politica vera» (Carr 2009, 143). Non i parlamenti, dunque, non le Unioni di Stati, non il Palazzo, ma le piazze, gli umori della gente: in sostanza il “basso”. Se vogliamo pensare un’alternativa politica al presente, occorre partire dalle piazze, dalle strade, dalle periferie abbandonate, elaborando una strategia comunicativa e politica per rappresentare quei subalterni senza rappresentanza (assumendo cioè la «parte dei senza parte») che costituiscono la maggioranza crescente dei popoli schiacciati dal tallone di ferro dei mercati autoregolati. 

Anche i subalterni non si dividono più tra “destra” e “sinistra”: ciò che sentono è un problema di rappresentanza, la rabbia di non poter contare, di non avere voce in capitolo sui processi di valorizzazione del capitale che passano sopra le loro teste. Si tratta di un popolo eterogeneo che sta assumendo coscienza della propria subalternità e che ragiona oltre le tradizionali ripartizioni della politica novecentesca. Questo dato rimane ed è un dato addirittura antropologico prima che politico o di costume.

Giocare ancora la carte dell’opposizione politica destra-sinistra ha una sola grande potenzialità: rafforzare l’autorappresentazione del potere neoliberale che mette in scena una opposizione di verità inconciliabili tra destra e sinistra per dissimulare la realtà dell’unica vera opposizione concreta: quella tra capitale e lavoro. È in questo modo che, per esempio, troviamo plasticamente rappresentata un’opposizione tra sostenitori del cosmopolitismo e dell’apertura dei confini (di cui si ha immediata prova sulla questione migratoria) e, dall’altra parte, i partigiani della chiusura identitaria, nazionalistica, razzistica, ecc. Si tratta di una cortina fumogena: né gli uni (Pd e affini) né gli altri (Lega e affini) sono fuori dall’egemonia neoliberale, come hanno dimostrato e dimostrano ogni volta che arrivano al piano della decisione politica, sempre subalterna alle logiche della privatizzazione, della negazione dei diritti sociali, della giustizia sociale ecc.

Senza scelte non c’è politica, scriveva Claudio Tito su «la Repubblica» qualche giorno fa, riferendosi al governo Conte bis, il cui «edificio governativo» sarebbe già pericolante, perché «non si conosce quali decisioni assumerà sui migranti; se verranno cancellati i cosiddetti decreti sicurezza; quali linee segneranno la prossima legge di Bilancio; se verranno revocate le concessioni autostradali», ecc. (3 settembre 2019).

Credo che un dialogo con questo governo sia possibile e auspicabile, anche per sfruttarne, cinicamente, le contraddizioni. Non dimenticando mai, però, che la “ricetta populista” laclausiana definisce il popolo come una costruzione, cioè non come una realtà oggettiva e già data ma una rappresentazione immaginaria basata sul simbolico. Occorre, perciò, inserirsi comunicativamente all’interno delle faglie tra “alto” e “basso” per significarne il vuoto, il gap, l’incolmabile distanza. Per fare questo si tratta di rovesciare dialetticamente l’ordine del discorso dato. 

Alcuni suggerimenti. Si tratta di dire, a chiare lettere, che i nemici non sono i migranti (nemmeno nella versione edulcorata della nozione marxiana di “esercito industriale di riserva”) ma il capitale postcoloniale che prima ne devasta i territori di origine e poi ne butta gli “scarti umani” in Europa o altrove lasciando gli Stati a sopportarne i disagi sociali e gli effetti politici (anche in questo caso funzionali all’egemonia neoliberale e ai suoi costrutti discorsivi: lo Stato non funziona, i buoni no border vs. i cattivi del nazionalismo identitario ecc.), portando dunque la questione migratoria su un piano insieme geopolitico e internazionale, non temendo di arrivare al braccio di ferro con le istituzioni europee senza tuttavia mai perdere di vista la salvaguardia dei diritti umani per chiunque sia in pericolo di vita o chieda, in base al diritto internazionale, di essere accolto.

Inoltre, si tratta di cominciare un processo politico alle classi dirigenti nazionali (come a suo tempo propose d’istituire Pasolini nei confronti della Dc), responsabili della cessione di sovranità popolare a istituzioni sovranazionali, con l’obiettivo evidente di giustificare politiche antipopolari asserendo la “necessità” di adempiere agli imperativi dell’Unione Europea: il problema non è l’Unione Europea in sé ma appunto tali classi dirigenti.

Evitare come la peste il feticismo dell’uscita dall’Europa senza se e senza ma, enunciato privo di efficacia politica, buono solo ad agitare le cronache e a costruire consenso popolare effimero e volatile, come dimostrano tutti i sondaggi: la politica della paura è vincente e le masse chiedono protezione, non teoremi in sé perfettamente coerenti e inattaccabili. Per di più, non si capisce, nemmeno sul piano teorico, come l’Italexit possa essere considerato il grimaldello discorsivo per risolvere l’enorme problema ermeneutico del rapporto tra teoria e prassi, tra analisi politica e azione politica, tra consenso e forza, ecc. Bisognerebbe essere in grado di praticare un “sovranismo” light,  procedere a un’ attenta ricostruzione discorsiva della comunità nazionale intesa quale patria solidale e repubblicana, capace di trattenere tanto la difesa del particolare quanto dell’universale, di coniugare internazionalismo e interesse nazionale. La ricetta potrebbe essere quella di un repubblicanesimo plebeo, in grado cioè di costruire un sano attaccamento all’amor patrio (inteso come amore delle leggi e del bene comune) e a istituzioni che rappresentino la totalità del popolo (e non solo le élite): una sorta di Stato populista (mi si passi la licenza) e popolare, capace di regolamentare i mercati e di non cedere sovranità alla finanza. 

In ultimo, cambiare totalmente modalità organizzative, assumendo le questioni di genere e di rappresentanza di tutti i subalterni come strumenti di trasformazione del modo di comunicare e di costruire la forma del soggetto politico. Abbandonare l’idea delle “quote rosa” per una rappresentanza paritetica di uomini e donne all’interno delle organizzazioni, sposare le rivendicazioni dei diritti civili con quelle dei diritti sociali. Non temere, in sostanza, di essere messi in discussione, di abbandonare le vecchie inerzie. E di sposare, finalmente, il nuovo. Anche se il vecchio non è ancora morto.

Bibliografia

Carr, Edward H. 2009. Utopia e realtà: Soveria Mannelli: Rubbettino. 

Foucault, Michel. 1977. “Il gioco di Michel Foucault.” In Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984). Milano: Raffaello Cortina. 

Gentili, Dario. 2018. Crisi come arte di governo. Macerata: Quodlibet.

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