Cultura | Politica

Tre parole chiave (più una) per il lavoro nuovo

10 Marzo 2018

Il caos. E’ questa la parola che meglio riassume l’impressione che ha un giovane che si affaccia al mondo del lavoro in Italia e cerchi di capire come è normato e come funziona. Un mondo di incertezza, estremamente polverizzato, dove la prima certezza ad essere venuta meno è proprio quella a più alta carica normativa, la certezza del diritto, di un diritto del lavoro che regoli i suoi assetti e le sue forme,; sostituito da una nuova forma di regolazione de-regolamentata che, se da una parte è tutta incardinata nel presente, dall’altra riporta in auge situazioni dal sapore ottocentesco, individualizzate, precarie se non saltuarie, non tutelate e mal pagate, spinte sempre più in avanti forzando sulla leva della disoccupazione.

La prima parola chiave per capire il lavoro oggi è dunque frammentazione, ed impatta in particolare sul contratto di lavoro, sia come concetto che come strumento normativo, che è stato così eroso da diventare quasi una nebulosa. Facciamo una rapida carrellata: full –time e part-time, contratto a tempo indeterminato, determinato, di apprendistato, contratti di collaborazione, incarichi di collaborazione occasionale impropriamente definiti contratti, a cui poi si aggiungono il contratto a chiamata, i nuovi voucher (PrestO), il contratto di somministrazione lavoro, il cosiddetto contratto a tutele crescenti del jobs act (che non è un contratto e non ha tutele), stage e tirocini, servizio civile e partita iva (che non sono forme di lavoro dipendente a contratto). A rendere ancor meno intellegibile il quadro – soprattutto a un giovane ma il discorso può essere esteso – i contratti collettivi nazionali di lavoro, quelli cosiddetti “tipici”, sono a loro volta intaccati dal proliferare di contratti “pirata” concordati fra organizzazioni datoriali e sindacali di comodo, fittizie, create ad hoc per avere accordi vantaggiosi dal punto di vista datoriale.

La frammentazione è tale da far venir meno il senso dell’orientamento, in un labirinto dove capita di credere di essere stati assunti per poi realizzare che formalmente si è autonomi – ancorché finti – ritrovandosi vittime di forme di lavoro sottopagate, senza tutele, precarie, flessibili oltre ogni dire, quando non addirittura invischiati in forme di lavoro gratuito. Come è ovvio, l’alternanza scuola-lavoro è molto accurata nel non preparare i giovani italiani a questo impatto, che è il primo e più concreto, con il mercato del lavoro.

A questa frammentazione normativa corrisponde un’esplosione delle figure lavorative, una varietà che riesce anche a convivere nello stesso tempo e nel medesimo luogo di impiego, creando sconcerto, divisioni e rivalità. Lavoro tipico e atipico, dipendente e indipendente, con la zona grigia che ci passa nel mezzo – quella della parasubordinazione, dei finti autonomi e dell’atipicità – che assomiglia a un “mondo del boh”, dove la fantasia degli inquadramenti regna sovrana insieme a quella sullo stipendio, a sua volta divenuto variabile indipendente dal tipo di mansioni svolte e dal tempo impiegato, spingendo al massino i profitti sul pedale dello sfruttamento.

Oltre alla frammentazione un’altra parola chiave è diventata “povertà”. I redditi si sono andati sempre più polarizzando, in un trend aggravato dalla crisi iniziata dieci anni fa, con fasce alte sempre più ricche e ristrette – e che si avvantaggiano della situazione appena descritta –, un allargamento delle categorie basse con meno risorse ed un assottigliarsi di quelle mediane, tanto che ci si è spinti a parlare di scomparsa del ceto medio, che ha fagocitato non solo il lavoro dipendente indebolito, ma anche categorie sociologiche ritenute al sicuro fino a qualche anno fa, come le professioni (avvocati, medici, ingegneri, architetti), fino a toccare gli artigiani e commercianti. Nonostante tutta l’enfasi ideologica sulle start up e sul lavoratore indipendente ad alta formazione che si gioca liberamente la sua partita sul mercato, il mondo del lavoro autonomo e della piccola imprenditoria subisce a sua volta i morsi della ristrutturazione economica ed vede allargarsi le fasce deboli.

Arriviamo così alla terza parola chiave per comprendere il presente del mondo del lavoro, che è subalternità. Che tu sia un artigiano, un commerciante, un’impiegata, un grafico, una commessa, un’operaia, un avvocato, un traduttore, un docente ecc… la tua posizione è sempre più subalterna, in termini concreti di potere di fronte al datore, al committente, alla multinazionale, alla grande azienda che assegna lavoro conto terzi e alla pubblica amministrazione, ma anche in termini di dipendenza economica e culturale. Una subalternità in senso gramsciano, che fatica a trovare le strade per esprimere la propria voce e le proprie rivendicazioni, sottoposta a un ordine egemonico che la nasconde per valorizzare un sistema discorsivo come quello che abbiamo visto all’opera con il jobs act. Un mondo di subalterni che, in cerca di una via d’uscita, finisce spesso per cedere alle illusioni di movimenti che si presentano come antisistema ma che poi non lo sono, come la Lega e il M5S.

Una nuova parola potrà allora funzionare da chiave di volta per aiutarci ad orientarci, ed è quella di popolo. Perché quello che abbiamo tratteggiato a grandi linee è il profilo del popolo italiano, del popolo lavoratore subalterno, frammentato e impoverito, che necessità di una nuova unità, di un’alleanza interclassista incardinata sull’idea di dignità del lavoro e della decenza dei redditi, dei servizi, sulla certezza del lavoro e dei contratti collettivi, che metta all’angolo le divisioni e le rivalità interne per porre al centro la vera divisione di questa società, quella fra le élites e la popolazione, in nome dei veri interessi del popolo lavoratore: un contratto certo, una posizione stabile e sicura per il lavoro autonomo e artigianale, welfare e tutele universali, redditi sufficienti per tutti, una ripresa economica a vantaggio del Paese e non di ristrette caste oligarchiche. E’ questa a nostro avviso la sfida che avrà di fronte chi vorrà costituire una forza politica capace di prendere le redini del Paese, per affermare un nuovo orizzonte di emancipazione e progresso che ci liberi dalla subalternità in nome della dignità.

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