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Un Green New Deal oltre la “crescita verde”

2 Ottobre 2019

Nel 2018 un nuovo approccio alla conversione ecologica è stato articolato negli Stati Uniti da un’alleanza fra movimenti ecologisti e socialisti. Si tratta del Green New Deal. Ora questo discorso sta facendo breccia anche in molti partiti progressisti in Europa: a partire dal Labour Party nel Regno Unito fino a Podemos in Spagna e a La France Insoumise in Francia, passando per DiEM25 che l’ha proposto come un progetto pan-europeo. 

Il Green New Deal esprime un netto rifiuto dell’approccio neoliberista nel fronteggiare la crisi ecologica e postula che quest’ultima è il risultato della deregolamentazione del mercato negli ultimi 30 anni. Ne consegue che l’aspirazione neoliberista di lasciar briglia sciolta al mercato si è rivelata distruttiva sia per il tessuto sociale che per la biosfera. Politicizzare l’emergenza climatica è quindi il primo passo per cominciare a prenderla sul serio.

Nel discorso del Green New Deal l’enfasi viene posta sulla necessità dell’intervento pubblico per la trasformazione delle infrastrutture energetiche e dei trasporti; per l’efficentamento e la decarbonizzazione di tutti i settori economici; e per aiutare i lavoratori a navigare questa transizione attraverso programmi di formazione e riqualificazione. Insomma, di uno “Stato imprenditore”. Ma i socialisti democratici d’oltreoceano affermano anche che il Green New Deal debba prevedere un’espansione del welfare per assicurare protezione sociale ed accesso ai servizi essenziali a tutti i cittadini in un tempo di profonda trasformazione economica e di più frequenti disastri ambientali. 

Oltre al modo in cui produciamo, il Green New Deal solleva la questione di come trasformare i nostri consumi. E per forgiare un vero discorso di “ecologia popolare” dobbiamo assicurarci che la giustizia sociale sia al centro della transizione. Se così non fosse, ciò che è successo con i gilets jaunes in Francia sarebbe solo il trailer di un film destinato a riproporsi in tutta Europa. Il punto politico espresso dai gilets jaunes non potrebbe essere più chiaro: vi è un rapporto diretto fra censo e livelli di emissioni personali e quindi di responsabilità per la crisi. Al contempo vi è invece un rapporto inverso fra ricchezza personale e vulnerabilità ai disastri ambientali. Ne consegue che chi ha generato tale crisi debba sobbarcarsene i costi e che i più vulnerabili ricevano aiuto nel navigare questa transizione.

Le ecotasse devono quindi essere approciate con intelligenza. Tale forma di tassazione è infatti generalmente regressiva in quanto viene imposta sui consumi. È perciò fondamentale accompagnare l’aumento dell’onere fiscale ecologico con una maggiore progressività dell’onere fiscale generale. Nel caso dei gilets jaunes, ad esempio, sebbene la miccia che ha innescato questo movimento sia stata una nuova tassa sui carburanti, il combustibile che la tiene viva è il risentimento verso “il Presidente dei ricchi” che ha diminuito l’imposta di solidarietà sulla ricchezza. Ma ancora più importante è la modulazione delle nostre politiche pubbliche: se vogliamo disincentivare certi tipi di consumo, dobbiamo innazitutto offrire alternative sostenibili. Nel caso di nuove accise sui carburanti, dobbiamo prima estendere la rete dei trasporti pubblici e renderli gratuiti così da non penalizzare chi abita fuori dai grandi centri urbani e sovvenzionare modelli di trasporto collettivi.

Come proposto nel Libretto Verde di Senso Comune, il principio di gratuità si può applicare poi anche ad altri consumi essenziali, come ad esempio elettricità ed acqua. Ciò si può fare adottando una nuova struttura tariffaria a blocchi crescenti che garantisca a tutti un certo quantitativo di consumi come diritto. Tale tariffazione riconoscerebbe la componente essenziale della prima unità e invece l’elemento di scelta delle unità successive. Ciò indurrebbe a ridurre i consumi in un modo socialmente equo. Questa struttura tariffaria rispecchierebbe il criterio della progressività con cui tassiamo il reddito attraverso aliquote differenziate.

Queste profonde trasformazioni socio-economiche devono essere intraprese con urgenza. Il sistema climatico è ormai sul punto del collasso ed è impellente che si agisca subito per limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5 gradi Celsius. Quando parliamo di decarbonizzare la nostra economia non dobbiamo trascurare un aspetto fondamentale: meno energia una società utilizza, più facile è completare la transizione. Infatti sebbene negli ultimi anni il tasso di installazione di impianti rinnovabili sia cresciuto, il loro contributo alla decarbonizzazione del sistema energetico è rimasto limitato in quanto consumiamo sempre più energia. Decarbonizzare la nostra società significa molto di più che investire in energie rinnovabili. Significa innanzitutto diminuire il consumo di combustibili fossili e ciò risulta fattibile solo se riduciamo al contempo l’uso aggregato di energia. 

Se poi allarghiamo lo sguardo e prendiamo in considerazione anche altri aspetti della crisi ecologica oltre alla dimensione climatica — l’estinzione di massa di specie animali, il consumo di suolo, l’esaurimento delle falde acquifere, l’inquinamento dell’aria e dei fiumi, etc. — risulta evidente che affinché il discorso del Green New Deal possa rappresentare una risposta adeguata allora è necessario che metta in discussione il nostro modello produttivista. Sebbene nessuno dei programmi di Green New Deal proposti finora indichino lo stimolo della crescita economica come uno degli obbiettivi, tutti strizzano l’occhio alla cosiddetta “crescita verde”.

Tuttavia vi è nella comunità scientifica un consenso sempre più ampio sulla scarsità di prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni ambientali in misura anche solo vicina a ciò che servirebbe per affrontare il collasso ecologico. Ma ancora più importante, sembra improbabile che tale disaccoppiamento si verifichi in futuro. Non è che gli aumenti dell’efficienza e lo sviluppo di nuove tecnologie non siano necessari, ma è irrealistico aspettarsi che possano scollegare in modo assoluto, globale, e permanente dalla sua base biofisica un metabolismo economico in costante crescita. Basarsi soltanto su questo per risolvere i problemi ambientali è estremamente rischioso e irresponsabile.

Quindi mentre il “capitalismo verde” pensa di poter affrontare solo con cambiamenti tecnologici la crisi ecologica, i movimenti progressisti devono affermare con forza che la vera sfida è la riduzione dei consumi aggregati accompagnata da una ridistribuzione dei consumi fra classi sociali. Dobbiamo riorganizzare il modo in cui produciamo e consumiamo così da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti, e garantendo l’inclusione lavorativa. Solo così il Green New Deal può diventare un autentico programma di emancipazione sociale e di giustizia ambientale, sia all’interno della nostra società che fra popoli. 

Alcune politiche per una trasformazione socio-ecologica verso un modello post-crescita sono in sintonia con le istanze storiche della sinistra: riduzione dell’orario di lavoro, ridistribuzione della ricchezza, e demercificazione dei servizi essenziali. Tali politiche potrebbero offrire ai cittadini inclusione sociale ed una vita dignitosa senza dipendere da una continua crescita del PIL. Una crescita che promette la sopravvivenza fino alla fine del mese ma che ci condanna all’estinzione entro la fine del secolo. Come ci ricorda lo slogan dei gilets jaunes: “fine del mese, fine del mondo, stessa lotta.” È necessario mettersi al lavoro dunque per costruire un’economia ecologica e solidale in cui viene data priorità alla stabilizzazione climatica, alla rigenerazione degli ecosistemi, e alla giustizia sociale per un’umanità capace di fiorire entro i limiti del pianeta.

Riccardo Mastini è un dottorando di ricerca presso lo Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona. Lo potete seguire su Twitter (https://twitter.com/r_mastini) e Facebook (https://www.facebook.com/r.mastini)

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