I barbari non hanno dilagato oltre il Po, pericolo scampato. E pericolo scampato per la sinistra, la cui sconfitta alle regionali emiliano-romagnole avrebbe innescato un processo dissolutivo dagli esiti imprevedibili. La portata del risultato, pur netto, non va esagerata: l’astensione rimane altissima, la destra avanza comunque massicciamente, l’Emilia Romagna rimane un’isola nel mare italiano sempre più compattamente leghista. Ma la possibilità di un ribaltamento dei rapporti elettorali era reale. Anche senza bisogno di ricorrere ai famosi “flussi” si può dire che nella tenuta un ruolo decisivo è stato ricoperto dal movimento delle sardine. Decisivo in cosa? Qual è stato l’elemento determinante nel successo della loro mobilitazione, di piazza prima ed elettorale poi? Questo successo “di pubblico e di critica” rimarrà un momento isolato e geograficamente circoscritto alla specificità emiliano-romagnola (in Calabria l’effetto-sardine è stato nullo), oppure avrà un impatto più generale sulla vita politica del Paese?
Il comportamento elettorale degli emiliano-romagnoli rappresenta probabilmente un’avanguardia ed una spia di processi generali in atto in tutto l’Occidente, o per lo meno in una sua gran parte, ai quali l’Italia si va pian piano adeguando. Negli Stati Uniti di Trump come nella Gran Bretagna della Brexit come nella Germania sempre più spaccata in due come nella Spagna progressista per 2 voti, così nell’Emilia di ieri si è certificato che la battaglia elettorale e politica non è più tra portatori di interessi materiali e di disegni sociali contrapposti. Lo scontro è tra città e campagna, progressisti e conservatori, vincenti e perdenti della globalizzazione (o tra chi per lo meno si percepisce come tale), strapaesani e cosmopoliti. Lo scontro è tra valori. Ciò che si sceglie di politicizzare – una scelta a cui concorrono tutti, politici, media, quel che resta dei corpi intermedi, le organizzazioni del terzo settore – non è il sociale, ma la morale, l’etica. In questo nuovo bipolarismo, le sardine rappresentano uno spartiacque perché spazzano via ogni residua remora, ogni residuo complesso, che si frapponeva alla completa e totale identificazione della sinistra con quella che i media chiamano “la parte migliore del Paese”. Un orgoglio aristocratico (oi aristoi, i migliori) che chiama a riempire le piazze e le urne, le campagne seguiranno come hanno sempre fatto, ma se non lo faranno non saremo certo noi a “capirne le ragioni”: prendere per buona la frattura, non cercare di sanarla, ma fare il pieno tra chi sta dalla parte buona.
Questa lettura non comporta l’avallo della favola della destra popolare e dalla parte della gente comune e della sinistra oligarchica e con la puzza sotto il naso, ché i due blocchi sono egualmente trasversali, tutti e due hanno i loro intellettuali pagati per “acculturare” il nuovo frame (quelli di destra può darsi che siano pagati pure meglio), entrambi gli schieramenti hanno i loro fini esegeti, i loro mecenati miliardari e i loro trinariciuti che li seguono a prescindere. Come è normale, e soprattutto consueto, che sia in politica. Quello che è cambiato è appunto l’asse lungo il quale si battaglia, la vittoria sulle inerzie che resistevano allo spostamento dell’asse della lotta politica. Le sardine hanno dato la spallata decisiva in senso identitario, e sull’identità hanno aiutato la sinistra a fare il pieno. Non a caso ne ha fatto le spese, e stavolta forse definitivamente, la sinistra cosiddetta radicale: se prima ci si poteva caratterizzare su un programma più o meno spinto nella proposta del mutamento sociale, giocare sui gradienti identitari è mission impossible, non ci sono gradi dentro l’assoluto dei valori. Cosa vuol dire “io sono più accogliente”, io sono più “antifascista”, “io sono più antirazzista”, “io sono diversamente europeista”? O lo si è o non lo si è, il resto son sofismi dello zerovirgola.
E ora? Che lo schema cambi a breve pare difficile. Non sarà certo la destra a risvegliare il demone del conflitto di classe – ma esistono davvero i “comunisti per Salvini”? Né questa sinistra, ora poi che ha trovato la chiave per dribblarlo. Anche perché la politicizzazione del sociale, ciò che in fondo è andato perso, è affare complicato. Ci vorrebbe una credibilità che non si ha, ci vorrebbe di mettere in dubbio certezze ormai inveterate, che non esistono governi amici per i sindacati, ad esempio, o che le istituzioni sovranazionali non sono esattamente popolate da amici degli interessi dei lavoratori. La situazione generale del resto, se non va meglio, ha smesso di andare peggio (Lenin l’avrebbe chiamata stabilizzazione relativa). E chi in Italia, a modo suo, aveva provato a politicizzare il dissenso sociale, i 5 stelle, vanno verso la rovina, proprio per via del nuovo panorama politico e sociale che va prendendo forma, ma anche per limiti cronici di gruppi dirigenti rivelatisi sotto la soglia minima di adeguatezza alla bisogna.
Speriamo bene quindi, che la nave vada, che Salvini continui a battere capocciate (fanno già due batoste su due tentativi di spallate da agosto a ora, il personaggio è tutt’altro che infallibile) e che, come quasi sempre avviene nella storia, la città faccia il suo lavoro di civilizzare la campagna. Certo può succedere qualcosa, che cioè dietro la quiete apparente si nasconda la tempesta di un nuovo scombussolamento economico che risvegli il dissenso sociale covante sotto la pensione dei nonni (ISTAT). Se succederà il rischio del troppo realismo delle sardine nell’accettare e nel promuovere il nuovo schema dello scontro è che avremo nel frattempo irrimediabilmente scordato dove avevamo messo la cassetta degli attrezzi. E allora chi ha bisogno si rivolgerà direttamente altrove. Conviene davvero dare per perso il matrimonio tra i valori della metropoli e gli interessi delle periferie?