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È possibile la politica nell’Europa di oggi?

10 Ottobre 2018

È forse vero che le difficoltà in cui ha iniziato ad annaspare il governo giallo-verde al momento di varare la manovra finanziaria siano dettate da un certo grado di dilettantismo politico, peraltro anche comprensibile almeno per forze che si affacciano per la prima volta alla guida del Paese (meno per la Lega, che al governo sta da 25 anni). Tuttavia la categoria della “competenza”, o della sua assenza, serve fino ad un certo punto a spiegare quanto sta accadendo. Del resto tutte le volte che, dal 1993 in poi, i “competenti” hanno preso il potere non è che abbiano dato bella prova di sé.

Non si tratta qui di giudicare la manovra nei dettagli. Sulle sue potenzialità, sui suoi limiti e sui suoi punti oscuri si è ben espresso Stefano Fassina in sede di commissione parlamentare. Ci troviamo di fronte ad un problema più generale: è possibile fare politica nell’Europa di oggi? Se di fronte a provvedimenti minimi come l’ammorbidimento di una legge pensionistica inumana, un po’ di sgravi fiscali e un po’ di integrazioni di reddito ai disoccupati si rischia una crisi delle finanze dello Stato, come si può mai pensare ad un serio rilancio del Paese? Gran parte della sinistra guarda con certo grado di compiacimento a questo stato di cose. Certo, il PD, se mai ritornerà al governo (ma prima deve sopravvivere), continuerà verosimilmente con l’austerità (ma su queste basi, chi lo dovrebbe votare?), almeno a giudicare dalle parole d’ordine che muovono la sua opposizione. Ma le forze della sinistra radicale, a parte “riaprire i porti” (misura sacrosanta) se per caso arrivassero in futuro a mettere in campo un progetto maggioritario, come potrebbero poi trasformarlo in misure concrete di governo? O non si pongono neppure il problema?

Del resto, già il renzismo è durato lo spazio di un mattino, incagliandosi sullo scoglio dell’impossibilità di coniugare rispetto dei parametri europei e consenso democratico. Lo stesso vale, in Francia, per Macron, che se rimane al potere è solo per via di un’architettura istituzionale meno permeabile dagli umori della popolazione. Pure Tsipras si è potuto confermare al governo per un’intera legislatura, ma a costo di mettere in atto (o di vedersi imposta, poco cambia) una gigantesca operazione trasformistica che ha minato alla base il progetto di Syriza.

Fino ad ora, per provare a competere nell’arena neoliberale i governi hanno avuto una sola strategia: trasferimenti diretti di soldi alle imprese tramite sgravi e incentivi, pagati con tagli allo Stato sociale e conditi con un arretramento dei diritti dei lavoratori. Questa ricetta, è sotto gli occhi di tutti, ha fallito. Non solo l’Italia non è diventata competitiva con la Romania o la Slovacchia o la Cina nell’attrarre investimenti diretti, ma la domanda interna è crollata ed il debito pubblico è aumentato (come un po’ dappertutto da quando è iniziata la folle corsa al taglio delle tasse per i più ricchi).

Per coniugare ripresa economica, aumento della domanda interna, aumento del valore aggiunto prodotto e stabilità finanziaria occorrerebbe un massiccio piano di investimenti pubblici in grado di finanziare se stesso in un arco ragionevole di tempo, invece di competere sul piano della svalutazione del lavoro e rassegnarsi ad una stagnazione compassionevole tramite lo pseudo-reddito di cittadinanza. Ma come finanziare l’innesco del piano? L’indebitamento fa innalzare lo spread; una maggiore tassazione sui grandi patrimoni porterebbe probabilmente ad una fuga di capitali resa più facile oggi dalla presenza ovunque, all’interno stesso dell’Europa, di paradisi fiscali; il credito bancario è stagnante e comunque ormai al di fuori del controllo pubblico.

Le regole imperanti non dovrebbero certo costruire un alibi. Il libretto amaranto di Senso Comune ha già prospettato più di una misura concreta per lo sviluppo del Paese. Ma appare sempre più chiaro che, senza una profonda rivoluzione nelle regole che presiedono al governo dell’economia (prime tra tutte, quelle della governance della banca centrale e della disciplina sugli aiuti di Stato), nell’Europa di oggi si rischia di vedere la politica messa definitivamente fuori gioco.

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