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Lettera ad un elettore di Emma

1 Marzo 2018

Cari tutti, scusate se vi impezzo con questo pippone, ma vi scrivo perché so che alcuni di voi stanno pensando, o potrebbero pensare, di votare +Europa di Emma Bonino.

Capisco che questa, all’interno del dibattito pubblico preelettorale italiano, possa apparire una forza progressista, viste le sue posizioni condivisibili su immigrazione e diritti civili, la retorica ragionevole e pacata di Emma Bonino e il confronto con la torsione securitaria del PD; ma bisogna essere consapevoli che la sua linea politica fondamentale intende implementare proprio quelle misure che stanno disgregando sempre di più la coesione sociale del nostro paese e dell’Europa intera, causando un aumento di diseguaglianze, sottoccupazione generalizzata, guerra tra poveri e xenofobia crescente. In altre parole, l’indirizzo politico di +Europa è fondamentalmente reazionario ed elitista. Vediamo perché. Le politiche di +Europa possono essere compendiate dalle parole di Guido Carli, ex presidente della Banca d’Italia e ministro del tesoro all’epoca della siglatura del trattato di Maastricht, che così descriveva le conseguenze politiche del modello d’integrazione europea a cui si intendeva dare corso: “l’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato Minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa i poteri delle assemblee parlamentari a favore dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe”. Insomma è la posizione del liberismo radicale che ha indirizzato le politiche perlomeno degli ultimi 30 anni e che continua a stabilire il quadro di riferimento delle classi dirigenti occidentali.

Ma vediamo nello specifico quali sono le posizioni più significative di +Europa. Intanto, pur fregiandosi di un europeismo esasperato, sul piano delle prospettive d’integrazione europea la posizione di +Europa non è a favore di un «superstato europeo», ma di «una federazione leggera. Come è stato già fatto con la moneta, si tratta di spostare al centro federale funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri»: questo significa escludere sia la possibilità di un’unità politica sovrana e democratica a livello europeo, ma anche quella di un meccanismo di unione fiscale redistributiva tra paesi membri. La prospettiva è la prosecuzione del modello intergovernativo attuale, basato sull’esautorazione degli esecutivi nazionali, con l’eventuale implementazione di sistemi specifici volti a riequilibrare le gravi asimmetrie tra paesi membri (come il Fondo Salva Stati). Gli strumenti previsto per aiutare i paesi membri nelle fasi di depressione ciclica continueranno quindi ad avere i caratteri del precedente Fondo salva stati, anche nelle nuove versioni di Fondo Monetario Europeo: vale a dire che continueranno a vincolare la concessione del credito alla sottoscrizione di “riforme strutturali” (sul modello Grecia, per intenderci).

Sul piano economico e sociale, il programma di +Europa sostiene che «è tempo di superare la stucchevole [sic!] polemica anti-europea sull’austerità». Secondo +Europa «l’economia europea è in forte espansione e l’Italia partecipa al processo, il mercato del lavoro migliora così come la dinamica salariale.» Questa affermazione contrasta non solo con l’esperienza immediata di tutti noi, ma anche con un’analisi onesta dei dati disponibili. Per citare solo un esempio, il tendenziale aumento della povertà in tutti i paesi membri dell’Eurozona, a partire dalla virtuosa Germania. Queste affermazioni manifestano chiaramente l’intenzione di proseguire e anzi, come vedremo, di inasprire ulteriormente le politiche di “austerità” portate avanti fino a qui. Le future politiche economiche dovranno infatti orientarsi ancora sulla «riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL, [sul] rafforzamento della qualità dei bilanci bancari, riducendo i rischi (NPL e portafoglio di titoli sovrani) [e su] politiche mirate per il rilancio della produttività». Aumentare la produttività in un contesto di blocco degli investimenti pubblici e di crescita bassa, significa imporre ulteriore flessibilità al lavoro (cioè favorire un ulteriore abbassamento generale dei salari) e favorire un abbassamento del costo del lavoro per le imprese tagliando le tasse a quest’ultime. Vale a dire, quanto fatto a partire dalla metà degli anni 90 fino al Jobs Act in un crescendo che ci ha portato nella situazione in cui ci troviamo ora. Restano ovviamente del tutto esclusi investimenti pubblici non solo orientati alla redistribuzione della ricchezza, ma anche di quelli orientati agli investimenti produttivi.

Nel bilancio europeo, secondo +Europa, «un peso maggiore devono assumere le spese per la sicurezza e la difesa, quelle per le politiche comuni per l’immigrazione [difesa delle frontiere esterne e creazione di corridoi umanitari], quelle per l’investimento in ricerca e nuove tecnologie». Non so se lo sapete, ma già oggi, l’unica spesa a non esser conteggiata all’interno del computo sul rientro del debito previsto dal fiscal compact sono proprio le spese militari! Nonostante i tagli alla spesa sociale (nella sanità pubblica in 8 anni il personale sanitario è calato di 45.000 unità) si prevede che la spesa per la difesa passerà dai 20,3 miliardi del 2017 ai quasi 21 miliardi del 2018, vedendo un aumento del 3,4%. Di spesa sociale invece non si parla nemmeno.

Al generale aumento delle misure di austerità si accompagna inoltre la proposta, molto radicale (sic!), di congelare per 5 anni la spesa pubblica al netto della spesa per interessi sul debito pubblico (che in Italia è già una delle più basse in Europa, in particolare, dopo le ingenti misure di austerità degli scorsi anni). Si tratta cioè della spesa impiegata per far funzionare la macchina statale e fornire servizi sociali fondamentali come sanità, scuola e sicurezza. Trattandosi di spesa nominale vuol dire che non si considera l’aumento dovuto all’inflazione: in pratica, se blocco la mia spesa ai 100 euro del 2017, nel 2022 continuerò a spendere 100 euro, anche se con quella somma potrò comprare meno beni e servizi, perché nel frattempo il prezzo di acquisto è aumentato. Questo significa, nei fatti, tagliare la spesa primaria con cui si finanziano l’amministrazione pubblica andando ad impattare direttamente su servizi sociali fondamentali (l’ufficio parlamentare di bilancio ha però già segnalato come, ad esempio rispetto alla sanità, prima voce di spesa del bilancio pubblico, sia «difficile immaginare spazi per ulteriori tagli a meno di non ridurre la qualità dei servizi offerti o il perimetro dell’intervento pubblico in questo settore»). Come scrive in maniera poco esplicita il programma, «congelare la spesa nominale significa fissarne un limite invalicabile per cinque anni, il che comporta una riduzione della spesa stessa misurata sul PIL se inflazione e crescita economica sono positive. Occorre quindi tagliare uscite correnti […] intervenendo sulla spesa corrente sulla base delle linee guida degli ex commissari alla spending review».

Inoltre, «il congelamento della spesa pubblica in termini nominali per la durata della prossima legislatura» si accompagnerà «a una rimodulazione delle tasse con taglio delle aliquote sui redditi di persone e imprese e riduzione della spesa fiscale». In particolare si prevede una riduzione di 4 punti dell’IRES (Imposta sul reddito delle società) e un contemporaneo inasprimento dell’IVA. Secondo il programma, «in tal modo si realizzerebbe una redistribuzione di risorse dal pubblico al privato e dalle rendite all’economia produttiva».

Insomma, da un lato tagliare la spesa pubblica e i servizi, abbassare le tasse alle imprese (senza contare che si è già avuta una riduzione dell’Ires al 24% nel 2016 e nel piano Industria 4.0 sono previsti agli iper e superammortamenti che ridurranno ulteriormente la base imponibile) e aumentare le imposte indirette sui consumi che impattano uniformemente sul reddito delle persone indipendentemente dalla loro condizione. Ecco una buona ricetta per una generale redistribuzione delle risorse dal basso verso l’alto e dal pubblico al privato attraverso ingenti privatizzazioni: mi sembra chiara quale sia la prospettiva per i pochi servizi pubblici rimasti e a favore di quali classi sociali si intenda operare.

Ma anche accettando l’ipotesi (sbagliata!) secondo cui la priorità dell’Italia sarebbe la riduzione del debito, il suo aumento non dipende dalla spesa primaria! Il debito pubblico è sempre cresciuto, anche negli ultimi anni di tagli feroci, non a causa della spesa sociale, rimasta inferiore o uguale ai livelli medi europei (nel 2016 il 45,4% sul Pil in Italia e nella Uem), ma della spesa per interessi (4% in Italia contro 1,8% nella Uem), cioè quella per ripagare gli interessi ai creditori, ossia alle banche e agli istituti finanziari internazionali che acquistano titoli italiani. Infatti, il deficit comprensivo delle spese per gli interessi è 2016 del 2,5% sul Pil (superiore a quello medio Uem senza Italia, che è dell’1,5%), mentre a livello primario (senza interessi) non c’è deficit bensì abbiamo addirittura un surplus dell’1,5% (superiore a quello medio della Uem senza Italia che è dello 0,5%). Non è allora la spesa primaria al netto degli interessi a dover essere messa in questione, ma piuttosto il meccanismo di finanziamento dello Stato! (ma questa è un’altra storia…)

Insomma, l’indirizzo politico fondamentale di +Europa oltre che promuovere politiche fallimentari (sono le stesse identiche politiche che ci vengono imposte dalla fine degli anni ‘70!), sta alla base dei principali problemi politici che ci troviamo ad affrontare come paese e come generazione: aumento delle diseguaglianze, impoverimento degli strati più fragili della popolazione, progressiva privatizzazione dei servizi sociali ecc. Un’ulteriore recrudescenza della xenofobia e l’inasprimento di un rancore sociale sempre più diffuso ne saranno gli effetti più tangibili. Nel caso, ripensateci!

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