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L’uomo nel suo lavoro e nel suo ambiente. Lettera di un infermiere dal fronte straniero

17 Maggio 2020

Chi scrive oggi è un infermiere italiano emigrato in Inghilterra da quattro anni, il quale potrebbe essere etichettato da varie diciture dal mainstream giornalistico odierno, passando dal titolo più nobiliare coniato in questi ultimi anni di “fuga di cervello” (forse troppo nobiliare per il mio rango) al meno apprezzabile, e più cafone, titolo salviniano di fannullone, “meridionale” o anche “africano”. Premetto che le mie origini sono multiculturali e multietniche per eccellenza, essendo figlio di madre con origini Eritree e Greche, mentre sul fronte paterno sono condito da “roots” Italiane ed Etiopi. Questo mi darebbe tutti i titoli per essere amabilmente definito straniero dagli italiani del fronte leghista, pur avendo un passaporto italiano, pur essendolo di origini e per Legge (mio nonno paterno era un italiano sceso in Etiopia con l’esercito del Re durante i fantasmagorici tempi del Fascismo) e pur essendomi formato culturalmente e a livello universitario in Italia.

La premessa è solo un cappello per far capire come a volte a qualcuno capiti anche di potersi sentire emigrato pur vivendo nella sua Nazione, ma allo stesso tempo è anche un elemento essenziale per far notare come i flussi di migrazione correlati alle scelte capitalistiche di libertà di movimento per le merci e per la forza lavoro tra Stato a Stato abbiano permesso a molti infermieri, medici, ingegneri, matematici, fisici e scienziati di varia natura, ma anche imprenditori e lavoratori di vario livello, di poter vivere in altri Stati, dovendosi poi scontrare o incontrare col concetto di emigrato, migrante economico e via discorrendo. In pratica, uno sdoppiamento di personalità e un turbinio di emozionanti sensazioni all’ interno di un viaggio non solo fisico, ma anche spirituale e interiore di rinnovamento, di incontro con culture diverse e, antropologicamente parlando, di un automatico mescolamento di usi costumi e tradizioni che in un modo o nell’altro influisce nella vita di tutti i giorni.

La premessa è e sarà un nodo importante per comprendere come la globalizzazione, ma soprattutto il Covid-19 oggi, abbia reso per magia ogni essere umano più vicino, accomunato da paura e speranza, forse meno lontano dal semplice concetto classista di emigrato o di straniero, ma attualmente e in maniera molto stringente, più vicino al concetto di elemento essenziale in una società sempre più, che ci piaccia o no, multiculturale e multietnica.

La parodia più emblematica di questa narrazione è sotto gli occhi di tutti e riguarda l’ UK, Paese dove ora mi trovo a vivere, in cui la Brexit pre-Covid-19 aveva amabilmente prodotto un ordinamento per il nuovo corso fuori dalla UE per cui i lavoratori definiti “low-skilled” (ovvero, tutti  coloro che non raggiungessero un monte salariale annuo di 30.000£) non avrebbero avuto più molte possibilità di entrare, in quanto tali lavori sarebbero stati tassativamente e in maniera più stringente regolati in base a un numero preciso ristretto, in base alle necessità condita da una molto attenta e vincolante prassi di richiesta del permesso lavorativo.

Premettendo che io non sono contro la Brexit. Uno Stato sovrano come l’Inghilterra (il baricentro più vincolante all’interno dell’ UK) ha diritto di scegliere la miglior politica economica e svincolarsi da un’Unione Europea monetaria se l’adesione viene valutata come non favorevole al benessere e al progresso nazionale; perché  ad oggi anche alla luce del voto in UK e con la vittoria del partito conservatore si è dimostrato una volta di più che questa uscita dall’UE non è stata solo una scelta dei vecchi inglesi poco scolarizzati o dei contadini delle aree rurali o di chi non ha mai fatto l’università, ma bensì dettata da un malessere nazionale riguardante soprattutto le politiche economiche e la visione di un’Europa germano-centrica dilagante, che ancora tutt’oggi in piena pandemia mondiale, in un momento di così profondo disagio umanitario, lavorativo, psicologico e medico sanitario nonché fisico, ha avuto il coraggio e l’opportuna visione di guardare a un’unità e a un interscambio economico di tipo solidaristico, approcciando questo disarmante problema con quello spirito meramente testuale ma non fattuale che  però è, da tutti gli europeisti convinti,  decantato a inno sublime di “fratellanza europeista”.

La questione, per ricongiungermi al nocciolo del problema, è che in UK oggi, come in Italia e anche in tutti i Paesi che hanno adottato il lockdown,  si è scoperto l’importanza di quei lavoratori, di quei ruoli in società che per molti anni si sono lasciati sotto la naftalina e la polvere. Scelta guidata da un forte pregiudizio classista e da un’innegabile pensiero oltranzista per cui solo chi ha i soldi e chi appartiene a una classe sociale superiore è degno di ammirazione, attenzione e diritto di parola e ha, quindi, diritto di dover essere ascoltato a prescindere. Oggi questo assunto è stato ribaltato, portando alla luce e agli occhi di tutti un’ importante verità: l’economia reale, quella che è necessaria per la sopravvivenza della specie umana, è sorretta dalla moltitudine di “key-workers” che sono un po’ gli ultimi, i rinnegati dalla nostra società protocapitalista e ultra-moderna, che ha dato dignità e voce solo a chi ha i soldi, a coloro che hanno uno status sociale degno, a coloro che appartengono a una classe politica e di pensiero unico, volto a pompare il verbo della libertà dell’economia finanziaria al di sopra di ogni legge, anche quella di Natura.

Bene, oggi proprio questi oltranzisti stanno capendo come la Natura stia ferocemente rimettendo al centro del villaggio se stessa e gli ultimi, le persone che di questa economia sono i reali fautori, coloro che rappresentano il necessario e l’imprescindibile, quello che è l’elemento essenziale della nostra vita in quanto esseri animali e viventi, coloro che sorreggono il “Sistema-Salute” e coloro che ci permettono di mangiare e di avere sulla nostra tavola il pane quotidiano; il pane così caro alle schiere barbariche dei Cristiano-Cattolici credenti d’ Europa, che amano professarsi figli di Cristo ma che voltano le spalle quotidianamente al povero, agli ultimi, agli stranieri e ai migranti.

Oggi, la natura e un virus che ne è parte da miliardi di anni, stanno facendo capire come la salute dell’essere umano, al domani delle Guerre Mondiali, abbia prodotto un sistema molto fragile, molto sottile come una lastra di ghiaccio che si sta sciogliendo inesorabilmente e che fa presagire il baratro di un futuro freddo e a temperature rigidamente sotto lo zero.

Al baratro di cui parlo ci stiamo avvicinando con velocità sempre maggiore, con incoscienza sempre più folle e con una irrazionale incapacità a una riflessione sana e guidata da una mente lucida. Sembra una scena cacofonica in cui il ripetersi del martellante “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene” del film “L’Odio”, si stia piano piano trasmutando in un loop senza fine in cui la paura si mischia a una sensata amarezza per non riuscire a tirare il freno a mano di questa spirale ovale, in cui il buco nero è l’unico elemento in grado di rappresentare dignitosamente il nostro destino,  di cui non si sa dove è la luce, la fine e se sarà una fine dolce o amara.

L’essenziale discussione che andrebbe oggi svolta con senso civico e onestà intellettuale è legata alla nostra economia: è la nostra economia integrata al ciclo naturale della vita? È la nostra economia abile a creare un bene comune, diffuso equamente tra le persone del Globo, in grado di rispettare l’ambiente, i diritti umani, le risorse naturali e in grado di permetterci la sopravvivenza alimentare, energetica ma anche solo la sopravvivenza come specie? A questa domanda poi sarebbe utile rispondere con franchezza, scevra di precostituite ideologie mentali di carattere economico classista. Quasi, a dirla tutta, andrebbe risposto con il bambino che è dentro ognuno di noi, con un senso di sincerità che è innato nell’essere umano e che è solo cooptato (ahimè!) in maniera coercitiva da un dettato e uno schema socio-culturale-economico che non prevede una reale franchezza, uguaglianza, rispetto del prossimo, empatia e voglia di sincerità atta a veicolare un messaggio di verità autentica e di libera autocritica costruttiva.

Nel nostro rispondere a questi quesiti ci dovremmo riappropriare quanto prima del nostro ruolo all’interno del ciclo naturale della vita. Siamo, in definitiva, esseri umani ma siamo prima ancora animali all’interno di un ciclo vitale, ci siamo per troppo tempo auto-imposti a specie superiore in una maniera quasi dittatoriale, dimenticandoci molto spesso di quanto la nostra necessità di ossigeno legata al verde intorno a noi, al nostro essenziale bisogno di ATP legato a quattro atomi con la natura stessa, che è sia ambiente che ci protegge con la ionosfera per permetterci di respirare, sia con il caldo soffio del vento che veicola ossigeno e brezza allietante per ammaliarci nelle estati afose, sia con il glucosio contenuto nel nettare delle api che sono nostre amiche, nelle proteine contenute sia nel mondo animale che vegetale, nel necessario bisogno di acqua pulita per il nostro organismo, che ci permettano di funzionare in maniere efficace in un sistema omeostatico di equilibrio interiore cellulare e di benessere psicosociale, psicosomatico e di felicità in grado di farci perdurare vivi e forti.

Questa intricata e essenziale connessione naturale deve essere riscoperta all’interno della nostra società quanto prima, sia da chi ci comanda, sia da noi consumatori, perché prima di tutto siamo esseri animali, poi essere umani e solo alla fine consumatori. In questo ultimo ruolo anche noi dovremmo imporre la nostra voce in maniera sempre più forte e preponderante, veicolando con le nostre scelte quello che l’industria deve proporci e asserendo il nostro ruolo di consumatori consapevoli e coscienziosi, un ruolo che deve essere riaffermato all’ interno delle scuole facendo una formazione di più ampio respiro, parlando di diritti umani, animali, di senso civico, di diritto dell’ambiente anche attraverso l’insegnamento corretto dell’inglese e delle lingue straniere, in modo da rendere i nostri figli sempre più in grado di interconnettersi con gli altri esseri umani all’interno di un Mondo Globalizzato e internettizzato.

In chiusura di questa mio excursus dai contenuti spigolosi, riflessivi e propositivi, vorrei prendere spunto da un concetto di un autore a me particolarmente caro che, secondo me, merita massima attenzione e ascolto. Si tratta di Yuval Noah Harari,  autore di una trilogia di libri molto centrata e avvincente sulle sorti e i destini dell’essere umano (Homo deus, Homo sapiens e 21 Lessons for Tomorrow). In una delle sue ultime interviste Harari ha centrato il problema delle sorti non solo della soluzione concernente il virus Covid-19, ma in generale una possibile àncora di salvezza anche per ambiente, uomo in quanto specie e, a mio parere, estendibile anche alla macro e microeconomia, ricercando nel concetto di solidarietà tra scienziati,  esseri umani e  Stati il motore di una  possibile soluzione. Per mio modesto, parere è un sillogismo il suo tentativo di trovare una soluzione, in quanto la sua parte centrale dell’assunto presuppone che, essendo il problema a monte generato da una Globalizzazione esanime che ha standardizzato i nostri comportamenti di consumatori e di popoli, rendendoci ineffabilmente sempre molto più vicini e meno lontani sia per costumi e usi, debba cercarsi la soluzione in uno Spirito di Popolo, uno Spirito di Umanità che trovi nella solidarietà la chiave per risolvere problemi che in un Mondo cosi complesso, interconnesso e veloce hanno visto il diffondersi di una pandemia passare da un versante all’ altro dell’Oceano quasi al battito di ciglia.

Per mia modesta estensione del concetto di fondo, ci stiamo avvicinando sempre di più a una verità semplice, quella della nostra interconnessione in quanto specie, che vede la necessità impellente di dover ristabilire il nostro ruolo dentro il ciclo naturale in quanto parte integrante di un ecosistema che ci deve vedere come “Specie tra le specie”, non un “super-partes” distaccato dai destini del mondo. La solidarietà deve essere, a mio avviso, un riconoscersi gli uni negli altri come essenziali, come vitali, come forze univoche e non divise tra povertà e ricchezza, uniti verso un esistenzialismo fatto di umanità, empatia e assistenzialismo.

Non è un caso che un virus così potente abbia messo sotto i riflettori una professione cosi ricolma di umanità e di spirito empatico come quella infermieristica e medica, che quotidianamente si fa  carico delle vicissitudini degli esseri umani nel momento più delicato dell’ incontro con la malattia, con la paura pervadente, con lo spirito delle persone che si sentono affrante e cercano sicurezza in uno sguardo, in una parola di comprensione, in un gesto di affettuosa intimità emotiva e di vicinanza per poter affrontare, con rinnovato spirito ed energia, le sfide poste davanti dal destino.

A tutti gli infermieri e a tutte le categorie che oggi resistono e sorreggono un’economia che non gli ha mai riconosciuto dignità e non ha mai apprezzato doti e capacità.

Un comune infermiere italiano emigrato, Antonio Costantini.

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