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Ribaltiamo l’agenda politica, proponiamo il lavoro di cittadinanza

13 Febbraio 2019

Senso Comune, dal momento della sua nascita, vuole ispirarsi alle forze populiste e progressiste come la France Insoumise e, soprattutto, Podemos, con cui avete intessuto proficue relazioni. Vi siete costituiti in associazione, avete una prolifera attività di divulgazione nel vostro sito web, avete nell’anno appena trascorso celebrato la seconda assemblea nazionale e fatto la “prima uscita in piazza” alla manifestazione per le nazionalizzazioni che poi è diventata la vostra campagna principale del momento. Finora è andato tutto come previsto? E in cosa consisterà la prossima fase di crescita?

Alcune delle forze da cui abbiamo tratto ispirazione, come appunto Podemos e la France Insoumise che ben segnali, hanno dato vita alla propria sfida politica in contesti storici piuttosto propizi per far irrompere ciò che per amor di sintesi possiamo qui chiamare un populismo di sinistra. Un’effervescenza sociale che non conosceva sbocchi e che non poteva trovare risposta nelle liturgie stanche della sinistra radicale ha trovato in questi due soggetti un’alternativa all’altezza della situazione. Godevano anche di un’altra carta che dalla nostra prospettiva risulta essere molto importante: in Francia, Mélenchon era già un personaggio politico di un certo spessore e dall’eloquio travolgente; in Spagna, Pablo Iglesias aveva raggiunto una certa fama come commentatore politico televisivo, partendo da un esperimento locale poco più che amatoriale. Entrambe avevano quindi dei leader riconoscibili e dotati di un carisma trascinante. In tempi di inerzia politica, la figura del tribuno può essere un catalizzatore fondamentale. Nel nostro caso, non disponevamo di nessuno di questi elementi. Il malcontento sociale e politico, che pure in Italia non è mancato, ha preso forme di espressione meno congeniali alla nostra proposta, senza contare che altri attori politici si erano attrezzati per egemonizzarlo in sensi politici antitetici al nostro. Insomma, non abbiamo avuto esattamente il vento in poppa. Per quanto questi fattori non ci fossero sconosciuti, va dato atto che l’esempio di France Insoumise e Podemos hanno creato una sorta di “immediatismo”, che da un lato può essere mobilitante, ma dall’altro rischia di esporre a una consunzione molto rapida qualora la promessa di un assalto al cielo non dia i frutti sperati in tempi brevi. L’orizzonte temporale va in questo senso rimodulato sulla scorta di una conoscenza migliore di quanto sia effettivamente a portata in questa fase storica nel nostro Paese.
Ad ogni modo, non ci si può dire insoddisfatti se si tiene in considerazione che si tratta di un’iniziativa partita da un gruppo di sconosciuti e privo di risorse e padrini politici. Mi pare che abbiamo piantato il seme di una riflessione che in Italia mancava, una riflessione che coniuga attenzione al lavoro, richiesta di sovranità popolare, giustizia e diritti sociali senza per questo dover oscurare quelli civili, femminismo del 99%, orgoglio delle proprie radici e della propria comunità nazionale. Più in particolare, si tratta di una proposta che mette a soqquadro vari dogmi e tic che hanno condotto la sinistra italiana, nelle sue diverse varianti, in un vicolo cieco. È quasi la proposta di una nuova antropologia militante: si fa politica per rivolgersi alla stragrande maggioranza della popolazione, anche a quelli che stanno ancora votando per Lega e M5S, non per conservare gelosamente un’identità che non va oltre il perimetro dei già convertiti. Ciò naturalmente comporta una duttilità, un pragmatismo e un’intelligenza politica che a sinistra oggi giorno scarseggia, abituati come si è a far politica per la propria micro-bolla di riferimento, a trarre appagamento per l’approvazione di chi già condivide con te praticamente tutto. Come e se questo seme germoglierà, dipenderà da quella combinazione imprevedibile tra circostanze esterne (ciò che Machiavelli faceva ricadere sotto il nome di “fortuna”) e la capacità di un gruppo composto perlopiù da intellettuali di passare a un registro più esplicitamente politico. In particolare, dovremo fare passi in avanti sul piano della proiezione mediatica. Mentre noi e il milieu da cui proveniamo continuiamo a muoverci nello scritto, vomitando autisticamente opinioni che ci leggiamo e critichiamo aspramente a vicenda, l’alt right sforna video semplici e capaci di fornire spiegazioni (fallaci) che entusiasmano milioni di persone. Insieme a quello televisivo, è su questo campo che si producono le battaglie egemoniche del futuro. Senza quella dimensione, si continua a sguazzare senza maggior gloria nel pantano del sottobosco politico.

Un vostro esponente di spicco, Paolo Gerbaudo, ha scritto un ottimo saggio sul partito digitale. Sintetizzando brutalmente, un partito disintermediato tra base e leader. E’ quello il vostro riferimento come forma partito? Puoi articolare come avreste in mente il partito popolare di massa di cui c’è estremo bisogno in Italia?

A dispetto di quella tendenza sospettosa nei confronti della forma partito che aveva preso piede un paio di decenni fa, vi è ora una rinascita del partito come strumento di organizzazione dei settori più deboli della società su piattaforme di giustizia sociale davvero apprezzabili, basti pensare a Podemos, France Insoumise e i Socialisti Democratici degli Stati Uniti di cui fa parte Alexandra Ocasio-Cortez. Sempre di più, si riconosce che una struttura organizzata, capace di marciare a ranghi compatti e di sfidare le forze neoliberali in maniera efficace è un bisogno intrinseco nel momento in cui vengono meno quelle protezioni sociali che, guarda caso, proprio i partiti del Novecento avevano faticosamente istituito. Naturalmente questi partiti prendono forme nuove, adattate alle mutate circostanze della contemporaneità, con una struttura di comando più agile e meno burocratizzata, insieme all’introduzione di strumenti digitali. Insomma, sempre di meno la riunione di sezione del mercoledì e sempre di più l’uso dei social media. Non sempre questo è un risvolto positivo, ci sono alcune polemiche sull’opacità con cui vengono prese le decisioni all’interno di alcune di queste formazioni e la disintermediazione completa non è desiderabile. Ora, siamo convinti che per cambiare la politica sia necessario innovare radicalmente le forme organizzative. Bisogna fare i conti con la trasformazione tecnologica che c’è stata negli ultimi anni e imparare nel bene e nel male da nuovi movimenti di protesta e movimenti politici su come sviluppare una nuova modalità organizzativa. Senza però cadere negli errori di quelle piattaforme e nell’illusione della fine della rappresentanza spesso coltivata da persone come Casaleggio. Gli iscritti devono avere potere su tutte le decisioni chiave: l’elezione dei loro leader e i punti centrali della linea politica. Quello che bisogna evitare è prendersi gioco delle persone facendo loro credere che con il digitale ci debba per forza essere una disintermediazione completa, narrazione dietro cui spesso si nascondono le peggiori fregature. Quindi c’è bisogno di conciliare il ruolo aggregativo del leader con la vita democratica e il dibattito interno. Ma prima di costruire un partito vero e proprio, c’è ancora molta strada da fare.

Durante il 2018 avete anche avviato una serie di collaborazioni con l’associazione Patria e Costituzione di Stefano Fassina, nonché con Rinascita e il Fronte Sovranista Italiano. Nella vostra idea rimarranno collaborazioni estemporanee oppure per voi vi sono gli elementi minimi per arrivare ad una collaborazione sul piano elettorale? E’ fantascienza immaginare un partito unico con una o più di queste forze? Perché molto si sta muovendo nella galassia denominata del “sovranismo costituzionale” ma ancora in maniera disarticolata e frammentata.

Se queste rimarranno collaborazioni estemporanee o meno non te lo so dire al momento. Il piano elettorale non è ancora dietro l’angolo a meno di fiammate improvvise e fare scommesse su come dove e quando sarà arrivata l’ora di entrare in quel ring appartiene al campo della elucubrazione cabalistica. Ora, bisogna riconoscere la validità di due elementi tra di loro contrapposti: il primo è che l’autosufficienza è cattiva consigliera, il secondo è che se nella nostra lettura iniziale l’unione della sinistra non era la soluzione, tanto meno lo sarà l’unione della sinistra sovranista. Il passo che ti permette di uscire dall’anonimato politico lo compi se sei capace di tornare a mobilitare le passioni politiche di un numero significativo di persone e verosimilmente saranno in pochi quelli ad emozionarsi per l’unione di tre-quattro sigle pressoché sconosciute. Naturalmente si pone sempre una questione di mezzi, cioè di risorse sufficienti a far sbocciare un esperimento, e da quel punto di vista un’intesa ha naturalmente una sua utilità. Ma dev’essere frutto di un amalgama sincera, capace di proiettare un orizzonte di senso agli occhi delle grandi maggioranze. Chi ti vede da fuori coglie un gruppo di persone in grado di garantire una protezione sociale e il ristabilimento di un ordine che sono venuti meno, o un’armata Brancaleone di esaltati eccessivamente fomentati con la politica? In tal senso, il campo della sinistra sovranista non è immune da problematicità. Vige un settarismo molto acuto. Ma attenzione: qui settario non vuol dire che non ti vuoi aprire ad altre organizzazioni, vuol dire erigere a feticci discriminanti una serie di questioni che ancora non godono di una centralità politica, vuol dire adottare un linguaggio in cui solo l’iniziato può riconoscersi, vuol dire assumere una serie di atteggiamenti apodittici che rischiano solo di suscitare l’ilarità o peggio ancora l’indifferenza del grande pubblico. In un contesto di riflusso generalizzato dell’impegno politico, il sovranismo di sinistra è un campo in cui spesso spiccano personalità eccentriche quando non apertamente improbabili e sconclusionate che spacciano per popolari una serie di consegne che in fondo sono solo estremiste.

Secondo voi come dovrebbe muoversi il governo italiano, se la responsabilità toccasse a voi. E quale assetto considerereste ideale per il continente europeo? Stati indipendenti che si relazionano tramite trattati bilateriali? Una diversa Unione Europea? Una confederazione di Stati diversa dall’attuale? Insomma qualcosa salvereste del progetto di integrazione europea attuale?

Per formazione intellettuale sono abbastanza allergico a un approccio che traccia con eccessiva esattezza i contorni del proprio punto di arrivo. In altre parole, la definizione di un mondo ideale non mi entusiasma, anche perché credo che nella pratica non abbia alcun senso, se non quello di entusiasmare i ciarlatani. Qualsiasi lotta politica vive nella contingenza: ad importare è il verso e la conoscenza del contesto in cui si opera. Non ci si muove in un vuoto e ad ogni mossa corrisponde una contromossa del nemico, così come l’alterazione di molte variabili che ti condizionano. Ora, per non schivare del tutto la tua domanda, il verso è il recupero della sovranità popolare, la democratizzazione delle nostre società e il ripristino di condizioni di vita decenti per le grandi maggioranze impoverite dalla crisi e messe in allarme dalla globalizzazione, ma qualsiasi lotta per ottenere questi obiettivi dovrà fare i conti con le opportunità del momento, le alleanze disponibili, lo stato di salute dell’economia italiana, la rapidità (e prima ancora la possibilità) con cui una nuova classe dirigente riesce a muovere effettivamente la macchina pubblica secondo le proprie istruzioni (che è un elemento tutt’altro che scontato). Ecco, quando leggo di recisioni a freddo con l’Unione Europea e l’Euro trovo si stia trattando l’argomento con una certa faciloneria. Certo, partiamo da un giudizio irreparabilmente negativo circa la funzione di entrambi i dispositivi e la desiderabilità di annullare il loro effetto nocivo sulla salute della nostra democrazia e della nostra economia. Se fossimo al governo bisognerebbe creare le condizioni per poterci liberare in futuro da entrambe o almeno della seconda, per poi disattendere contestualmente quei trattati della UE che sostengono l’impianto dell’Euro. Ma è un percorso tutt’altro che privo di insidie. Se per liberarmi dall’Euro e tornare a fare spesa pubblica, il nemico costringe il Paese alla fame e alla conseguente capitolazione del progetto politico, possiamo dire di aver fallito miseramente. Non dobbiamo nemmeno dimenticare lo stato del dibattito al riguardo in Italia. Pochi dubitano che l’Unione Europea ci stia trattando a pesci in faccia, ma a fronte di un ipotetico referendum secco sulla Italexit, non sarei così tanto sicuro che prevalga l’opzione di uscita. Bisogna partire da una serie di posizioni di fondo inderogabili e da lì agire nel contesto. Fare politica in fondo è questo. Un progetto politico responsabile pensa sia nel breve sia nel medio-lungo periodo. Vanno quindi cercate misure tampone per alleviare la sofferenza sociale generata negli ultimi anni e va capito quello che una popolazione è pronta a fare in un dato momento, senza per questo abdicare a un programma di più ampio respiro, ma che ha bisogno di una temporalità diversa per potersi sviluppare appieno.

Quali sono i vostri temi portanti, che pensate possano tirar fuori l’Italia dalle secche in cui si trova?

Viviamo una situazione complicata. L’egemonia di cui godono le forze di governo, e in particolar la Lega, sembra per ora inattaccabile e non è facile azzeccare una strategia discorsiva capace di metterle in difficoltà, specie se il luogo di enunciazione è ancora quello del sottobosco politico a cui facevo riferimento in precedenza. Il dibattito pubblico è incancrenito da un avvitamento sulla questione migratoria. Si tratta di una dicotomia dalla quale non c’è nulla di buono da trarre. Insistere sul polo opposto a quello della Lega è eticamente lodevole, ma politicamente infecondo. Ormai è sotto gli occhi di tutti. Cercare di approssimare la Lega è eticamente schifoso e politicamente inutile: c’è già chi occupa immensamente meglio di te quella casella. Può tuttalpiù avere senso adottare una posizione sfumata sulla questione per evitare di farti schiacciare su quello che ora viene chiamato “buonismo” o “globalismo”, riconoscendo quindi il dramma umanitario e rigettando le politiche della Lega, ma ammettendo la problematicità del fenomeno e la necessità di intervenire. Tuttavia, si tratta di un asse da cui non si cava niente di positivo e vanno ricercate altre dicotomia da imporre e cavalcare, all’interno delle quali si occupa la posizione più forte. È la questione del controllo dell’agenda politica. Ora, nella nostra lettura ciò che ha portato il malcontento ad esprimersi nelle forme correnti è un impoverimento economico di ampi settori della società, insieme a una perdita di autorità di ogni figura riconducibile al mondo delle élite. Nonostante sia tutt’altro che un determinista, mi pare lampante che la questione del lavoro ricopra un ruolo fondamentale in questo smottamento. Il lavoro inteso sia in termini di quantità, sia di qualità. Tra la deindustrializzazione rampante e le politiche economiche di austerità, l’Italia non è più in grado di generare impiego come una volta. Se a questo sommiamo l’approccio rapace di buona parte dell’imprenditoria italiana e la deregolamentazione del mondo del lavoro, ecco anche che una generazione intera è sottoposta a una precarietà che non permette di imbastire più un progetto esistenziale degno di tal nome. Per questo a breve lanceremo una campagna per il lavoro di cittadinanza: partendo da quella che è una politica che coglie un nucleo di verità, cioè il reddito di cittadinanza, vogliamo ribaltare la frittata dicendo che si tratta di un palliativo inadeguato che espone i percettori di tale reddito al ricatto, proponendo invece la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro sicuri, garantiti e ben pagati, con lo Stato a fungere da “occupatore di ultima istanza”, come proponeva l’economista Federico Caffè. Il lavoro di cittadinanza permette di ricollegarti a un’altra serie di nessi: per generare lavoro, c’è bisogno di aumentare la spessa pubblica attraverso gli investimenti che ora tutti ipocritamente invocano e questo comporta un confronto serio e ben più conflittuale con l’Unione Europa di quello messo in campo dalle attuali forze di governo. Qui si crea una concatenazione naturale con l’idea di un riscatto nazionale e un patriottismo che nella loro nostra proposta non ha una valenza xenofoba o aggressiva, bensì di protezione per chi abita le nostre terre. Io stimo che ci vorranno ancora un po’ di anni prima che la retorica del nazionalismo di destra della Lega, che nel frattempo è visto come la miglior rassicurazione per la tutela degli interessi forti del Paese, inizi a dimostrare tutta la sua vacuità. Quando gli italiani apprezzeranno che dopo un tempo protratto senza sbarchi si continua a stare come si stava prima, ci sarà un ripensamento radicale. Dovremmo essere pronti a inserirci esattamente in quel momento. Poi ci sono altri temi che vanno innestati su questo impianto: per noi, il tema ambientale e quello di un femminismo sociale (e non formale, borghese) rivestono un ruolo fondamentale.

Intervista a cura di Pietro Galiazzo. Da sovranitaalpopolo.home.blog, 11. 2. 2019

Intervista a Samuele Mazzolini (Senso Comune): “Ribaltiamo l’agenda politica, proponiamo il Lavoro di Cittadinanza”

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