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There is no alternative, e queste sono le conseguenze

18 Dicembre 2019

Il risultato delle elezioni inglesi conferma la forza d’urto dell’ondata di destra che attraversa l’intero spazio politico euroatlantico. Il caso britannico, pur con le dovute specificità, può essere letto come culmine di questo ciclo lungo. Come uscirne?

La battaglia politica si struttura nella società di massa lungo due assi, l’asse del conflitto tra valori  e identità e quello tra interessi materiali contrapposti. Il socialismo ottocentesco era nato sulla saldatura tra difesa degli interessi dei lavoratori e difesa dei valori progressisti. Emancipazione sociale e culturale andavano a braccetto. L’antifascismo aveva costituito il culmine di questa saldatura (il fascismo come reazione padronale e notte della ragione), che poi aveva contraddistinto l’epoca delle grandi rivendicazioni dell’età dell’oro del secondo dopoguerra, quando il movimento operaio aveva marciato a fianco dei movimenti progressisti ambientalisti, femministi e pacifisti.

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso ha preso corpo la reazione neoliberale, la cui vittoria più duratura è consistita nell’espulsione dall’agone politico della rappresentazione degli interessi sociali contrapposti: il tatcheriano There is no alternative elevato a dogma. A salvaguardia di questa espulsione furono progettate istituzioni internazionali impermeabili dal conflitto sociale e dalla stessa responsabilità democratica.

Nel decennio successivo la sinistra aveva in gran parte dell’occidente ripreso l’iniziativa con il progetto della Terza Via, un paradigma nuovo per la socialdemocrazia nato proprio in quel mondo anglosassone dove il neoliberismo aveva preso prima il sopravvento. Il blocco sociale alla base dei successi dei vari Clinton e Blair, con i loro epigoni nel vecchio continente, è stato definito da Nency Fraser neoliberismo progressista, una variante cioè del vecchio blocco progressista che assumeva come dato di fatto l’asserzione tatcheriana, e che quindi non dava risposte in termini di redistribuzione del reddito ma soltanto di riconoscimento delle molteplici identità post-moderne.

La crisi del 2008 ha fatto piazza pulita dei sogni irenici degli anni ’90. I nuovi contro-movimenti sorti in risposta alla crisi (dagli indignados spagnoli e portoghesi al movimento greco, fino a Occupy Wall Street, tutti con le loro successive traduzioni partitiche) sono stati connotati da una riproposizione della difesa tanto dei valori progressisti quanto degli interessi materiali dei ceti subalterni. La reazione dei gruppi dominanti è stata fortissima, tale da determinare la sconfitta di quei progetti. Il governo di Syriza fu soffocato dall’intransigenza dei custodi del dogma neoliberale (“Non dovete pensare che i risultati di una elezione possano cambiare l’economia”, così Schäuble ai nuovi governanti greci), il governo della sinistra portoghese dovette sottostare a sostanziali limitazioni dai guardiani nazionali ed europei dell’austerità, Sanders non riuscì ad ottenere la nomination alle primarie democratiche e una unione sacra in Spagna si coalizzò informalmente contro Podemos e la sua possibilità di incidere in un ipotetico futuro governo.

L’attuale ondata di destra va letta alla luce di quelle sconfitte e dalla susseguente chiusura della parentesi che i movimenti e i partiti della nuova sinistra avevano saputo aprire. Non trovando rappresentanza politica l’asse del conflitto sociale, ha ripreso campo un rigurgito identitario che la nuova destra ha saputo ovunque cavalcare. Nazionalismo, maschilismo, autoritarismo, razzismo ne costituiscono il carburante. La riscossa delle periferie contro le metropoli, della campagna contro la città, si nutre della sorda impermeabilità delle istituzioni alle domande di emancipazione sociale. La Old England che garantisce il successo dei conservatori, la Spagna vacía che ha alimentato la nascita di Vox, l’America profonda che tiene a battesimo l’egemonia di Trump contro la Londra laburista, i quartieri cosmopoliti di Madrid che hanno allevato la classe dirigente di Podemos, le coste USA a cui si limita la ridotta Democrat. Ovunque la battaglia politica galleggia su di un mare di indifferenza popolare e prende le forme di una dependance del sistema di entertainment nel quale si muovono attori che, come nella commedia dell’arte, svolgono ruoli prefissati, il colto intellettuale e l’arruffapopoli che mangia la polenta alla faccia dei “professoroni”. Lo stesso dibattito sull’europeismo è prigioniero di fazioni opposte, tra chi si oppone all’UE rivendicando l’onore offeso della patria e chi affida la salvezza di quest’ultima all’Europa, un dogma a sua volta identitario e privo di connotazioni realmente emancipatorie. E anche da sinistra, i movimenti che funzionano, cioè che trovano agibilità e legittimità nello spazio pubblico, sono quelli rivolti alla salvaguardia della propria identità offesa (le Sardine, ma anche i vari nazionalismi periferici declinati in chiave progressista).

I movimenti del 2008 hanno aperto un ciclo dalle grandi potenzialità. La chiusura a riccio dell’oligarchia ha seminato macerie sulle quali oggi prende vigore la nuova destra. Per sconfiggerla è urgente riproporre un disegno di emancipazione totale che si nutra dei valori del progresso e degli interessi delle classi subalterne.

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