Cultura

Capitalismo-zombie: morti che si mangiano i vivi

4 Novembre 2017

Morti viventi dappertutto. Si aggirano nelle strade delle nostre metropoli, negli aeroporti, nelle zone industriali delle nostre campagne. Quella che stiamo per raccontare è una storia di morti che si mangiano i vivi.

Prima però un po’ di suspence

La nostra è un’epoca in cui gli zombie sono protagonisti dell’immaginario, personaggi in cui rispecchiarsi e inorridire. Il successo dei telefilm sui morti viventi non sono che la punta dell’iceberg di una passione – meglio dire un rispecchiamento – nata negli anni ’60 al cinema e poi giunta, tra alti e bassi, al boom attuale.

Nel 1968, anno di grandi rivolgimenti, nasceva lo zombie moderno, per merito di George A. Romero e del suo La notte dei morti viventi. A quel film ne seguirono molti altri, tanti italiani e di valore cinematografico, spesso senza la carica di critica sociale dei film di Romero. Tolto dalla tradizione vudù e posto nel mezzo della modernità occidentale, lo zombie diventava – con agghiacciante semplicità – corpo morto che resuscita, schiavo dell’impulso irrefrenabile di cibarsi dei vivi. Il cannibalismo (pulsione primordiale repressa, tabù finalmente superato?) diventa l’essenza dell’esistenza da zombie.

Da allora, i morti viventi sono diventati onnipresenti, non solo sullo schermo, nella musica o nel fumetto. In sociologia è stato coniato il termine mall zombies (zombi da supermercato) per indicare quei consumatori che ciondolano per i grandi centri commerciali, privi di espressività e incapaci di reagire a stimoli diversi dal consumo, incantati dalle vetrine sfavillanti. Nella nostra attuale crisi economica, le banche-zombie si sono rivelate la nostra zavorra più gravosa: morti che camminano.

Ma ciò che è davvero notevole è che, oggi, davvero i morti si mangiano i vivi. Accade nel nostro operoso Nord-ovest, terra (una volta, almeno) di grandi industrie e piccole sfavillanti realtà produttive. La vicenda peculiare che racconteremo è quella della Comital di Volpiano, storica azienda dell’area torinese.

Da sempre capofila del gruppo Cuki, Comital realizza laminati di alluminio per il settore farmaceutico e alimentare. Chi di noi, salvo i giovanissimi, non ricorda la pubblicità degli anni ’80 e ’90, in cui due fratelli giocano a rugby con un pollo ben avvolto nella stagnola, facendolo finire fin dentro una fontana, eppure alla fine portandolo a casa sano e ben conservato?

Era quella la Comital che passava dalle Partecipazioni statali al Gruppo Valetto, e che impiegava 1000 dipendenti nel sito di Volpiano. Ora i dipendenti sono meno di 140 e l’azienda sta per chiudere. Il morto vivente però non è quest’azienda, bensì Comital è la preda.

La gestione Valetto, nonostante un buon andamento di mercato, accumula debiti e inizia a cedere asset del gruppo Comital Saiag. Comital e Cuki entrano nell’orbita del fondo M&C di Carlo de Benedetti. L’ex-amministratore di M&C, Corrado Ariaudo, diventa proprietario del gruppo Comital.

Nel 2014 la francese Aedi, tramite la controllata italiana Lamalù, diventa proprietaria della fabbrica, o meglio della sola attività di laminazione dell’alluminio. I capannoni rimangono di proprietà di Ariaudo, che si tiene anche il marchio Cuki, di cui continua il rilancio. Lo spezzatino era iniziato da tempo, ora continua il banchetto: gli zombie squartano le carni e se le dividono.

Comital Volpiano sarà anche in crisi, ma nel 2014 ripaga i debiti accumulati. Lo fa ad un ritmo addirittura migliore del previsto. Inoltre, ha importanti ordinativi e un mercato in espansione, quello dell’alluminio. L’acquisizione viene celebrata in pompa magna dalle istituzioni regionali e locali, soddisfatte di aver avuto garanzie su sopravvivenza e risanamento della Comital. I primi periodi paiono molto positivi: la nuova proprietà assume più persone di quante ne aveva pattuite, arrivando a 138 dipendenti.

A ben vedere qualche elemento iniziava ad insospettire le istituzioni più attente. Nessun piano industriale verrà mai presentato. I macchinari Comital vengono venduti a una società che li ri-affitta a 300mila euro al mese alla stessa Comital. Il lavoro abbonda, ma si vedono allo stesso tempo difficoltà di approvvigionamento dai fornitori, causa mancati pagamenti da parte di Comital. Nel 2017 Lamalù definisce improvvisamente i problemi non più affrontabili, la fabbrica deve chiudere. Il 28 luglio, con conclusione dell’iter a metà ottobre.

I numeri però non danno loro ragione. Ci sono tre milioni di euro di perdite, ma a fronte di tredici milioni di euro di capitale sociale. I macchinari (rotti e non ancora riparati) cambiano di prezzo a seconda della proprietà sotto cui passano. Il 22% del mercato europeo del laminato d’alluminio rimane in mano a Comital: quando i fornitori vengono pagati, la fabbrica lavora a pieno regime perché ha ordini da smaltire. Si tratta di “cannibalismo finanziario”, commenta il sindaco di Volpiano.

Aedi non si è solo mangiata un concorrente pericoloso. Lo ha divorato pezzo a pezzo e poi alla fine con un morso netto gli ha staccato la testa. L’azienda non è fallita e con questi conti non potrebbe fallire; infatti si tratta di “liquidazione volontaria”. Come un verduriere che si stufa del suo mestiere e tira giù la serranda; ciò vuol dire che le autorità pubbliche non possono intervenire. Un imprenditore è libero di stufarsi e chiudere la sua impresa. Nessuno può obbligarlo a cederla a qualcun’altro, che continui a far lavorare le macchine e a dare un impiego ai lavoratori. Neppure se c’è mercato per vendere e l’impresa è più che viva.

Il pasto è finito, andate in pace. Un corpo (morto) animato dalla fame che si divora un corpo animato dalla vita. Le partite di giro di tipo finanziario che si mangiano le giornate vissute e sofferte di chi lavora per portare a casa uno stipendio. Comital è viva, non solo perché come azienda avrebbe mercato; è viva perché vive sono le 138 persone che perderanno il lavoro; le loro famiglie sono vive; i loro affetti, la loro fatica e i loro successi sono quanto di più vero e vivo ci sia in giro.

È la finanza che è morta e porta morte. Che si mangia il lavoro, che è quanto di più vivo ci sia, perché lavoro è indubbiamente sinonimo di “travaglio”, di sofferenza e sacrifici, ma significa anche e soprattutto passione, successi, relazioni, indipendenza economica (cioè libertà) e famiglie (cioè responsabilità). In un mondo in cui la libertà economica è assoluta e quindi le brame animalesche di questi cadaveri finanziari sono permesse e incoraggiate, le aziende “sane” somigliano sempre più ai sopravvissuti assediati, rinchiusi nel fortino in una difesa disperata.

Dovremmo rassegnarci ad una società di morti che camminano? Chi ha resuscitato i morti? E chi li ha sguinzagliati contro i vivi? Chi invece ha assistito a queste carneficine senza intervenire? Ma soprattutto: se gli zombie si mangiano quel poco lavoro che ci resta, cos’altro ci rimane?

Uno scenario post-apocalittico, città con pochi potenti che vivono in torri d’oro e masse di superstiti abbruttiti in periferie infelici; dipendenze da droghe, alcol e gioco; famiglie distrutte e separate.

Perfetto per un film di zombie; ma non può essere la realtà.

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