Cultura

Cosmopoliti contro nazionalisti, la nuova metafora politica

30 Maggio 2017

Dopo la sconfitta alle elezioni francesi di questo mese, la candidata del Front National Marine Le Pen ha insistito sulla divisione che, a suo dire, indirizza la politica francese ed europea: “mondialisti vs patrioti“. Da una parte, la globalizzazione “selvaggia e disumana” al servizio della finanza, insieme a dosi smodate di multiculturalismo, alti livelli di migrazione e l’indebolimento delle identità nazionali; dall’altro, un rinnovato sovranismo, frontiere messe in sicurezza e priorità del locale. Né sinistra né destra. Il suo avversario, il social-liberale Emmanuel Macron, ha cercato analogamente di svincolarsi dall’asse gauche-droite posizionandosi all’interno dello stesso dell’antagonismo tracciato da Le Pen, ma con valori invertiti: l’Europa come orizzonte vs nazionalismo xenofobo; cosmopolitismo vs. ripiegamento comunitarista. E non è solo la Francia. Per molte correnti della destra alternativa degli Stati Uniti, il confronto è tra globalizzatori e anti-globalizzatori. Proprio su questo ha cavalcato Donald Trump per arrivare alla Casa Bianca.

Così, se dopo la caduta del muro di Berlino è stata messa in discussione la validità del binomio sinistra/destra in nome della presunta “morte delle ideologie”, riemerge ora il problema, ma senza quell’ottimismo da fine della storia. L’asse sinistra/destra starebbe semplicemente mutando in un confronto tra populisti e liberali. È davvero così?

“L’asse mondialisti/nazionalisti, piuttosto che sostituire sinistra/destra, si sovrappone a quest’ultimo. Come già avvenuto in passato, ci sono più assi che si sovrappongono a seconda del contesto locale. In Italia, per esempio, più di mondialisti/nazionalisti, che in ogni caso sta guadagnando terreno, è ancora più importante la divisione onestà/disonestà. E tutte queste nuove dicotomie possono essere dispiegate da sinistra o da destra, o, per essere più precisi, dalla divisione storica tra uguaglianza e gerarchia”, dice a La Nación Samuele Mazzolini, ricercatore presso l’Università dell’Essex.

“La divisione sinistra/destra è ancora utile, ma non ha più la capacità esplicativa che aveva nel ventesimo secolo. La divisione tra cosmopolitismo e nazionalismo, o più in generale, tra diversità e identità, taglia trasversalmente i campi ideologici” gli fa eco Aníbal Perez-Linan, professore presso l’Università di Pittsburgh.

In effetti, Le Pen si è scontrata con la sopravvivenza di questa divisione dello spazio politico nel momento in cui ha cercato senza successo di attrarre il voto di sinistra della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. È vero che negli ultimi anni gli ex elettori comunisti dei quartieri popolari siano andati con Le Pen. Ma mentre Le Pen e Mélenchon criticano la globalizzazione della finanza, ciascuno si iscrive in tradizioni politiche opposte: i giudizi politico-morali su diversi fatti storici, il pantheon di figure che catturano le loro simpatie, i libri che leggono e i simboli che organizzano il loro impegno politico prevengono qualsiasi confluenza. In breve, la Francia antiilluminista in un caso e quella della Rivoluzione nell’altro. Entrambe le parti affrontano il “sistema”, ma il sistema non è lo stesso.

Populismo di centro

Chiaramente, si tratta di un concetto oggetto di discussione. Per la sinistra tradizionale il sistema era il capitalismo; per Donald Trump è l’elite di Washington, le università della Ivy League e i maggiori quotidiani; per i nuovi ​​liberali lo possono essere i vecchi partiti e lo stato sociale corporativizzato; per i populisti di sinistra la casta politico-imprenditoriale e per quelli di estrema destra, l’Unione europea associata alle élite locali. Oggigiorno, essere “anti-sistemici” vende. Così Mazzolini crede, con un tocco di ironia, che potremmo parlare persino di un populismo di centro.

Si tratta di figure che emergono dalla crisi dei sistemi politici e sono in grado di costruire frontiere politiche tra vecchio e nuovo, moderno e decrepito, a partire da guide personalizzate e un particolare discorso “antisistema”. Sono liberali non dogmatici nelle questioni economiche e progressisti in quelle civili. Sono riusciti a costruire un vocabolario che ridefinisce – “modernizza” – le vecchie parole in chiave “post-ideologica” con dosi variabili di capitalismo con estetica Starbucks. Ad esempio, Macron ha intitolato il suo libro Révolution. E chiaramente non si riferisce alla lotta di classe. Macron, Matteo Renzi in Italia, Justin Trudeau in Canada, Albert Rivera in Spagna: alcuni già al governo, altri come leader di partito, costituiscono “una sorta di fronte dei trentenni e quarantenni bellocci“, scherza Mazzolini. E in Argentina l’abito potrebbe calzare più o meno facilmente ad alcuni (solo alcuni) esponenti del Pro. Con questa strategia, Macron sta mettendo su un governo con pezzi di centro-sinistra, di centro-destra e di figure “cittadine”.

“Da quindici anni in America Latina parliamo di ‘due sinistre’, ma oggi dovremmo piuttosto pensare in termini di ‘due destre‘. Il divario tra Angela Merkel e Marine Le Pen racchiude un certo paradosso: per decenni abbiamo pensato che il neoliberismo e la globalizzazione fossero le principali sfide per un progetto di sinistra, ma la sinistra cosmopolita sembra riscoprire in questo secolo che il pericolo principale è la destra xenofoba, non la destra neoliberista“, aggiunge Pérez-Liñán. Nel caso americano, la femminista Nancy Fraser parla criticamente di un “neoliberismo progressista“. Questo si articolerebbe in “un’alleanza delle principali correnti dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ), da un lato, e, dall’altro, settori del businness ad alta gamma ‘simbolica’ e settori dei servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”.

Questi riordinamenti mettono a disagio la sinistre e la destra tradizionali. La socialdemocrazia europea è vittima di queste riconfigurazioni di senso. La sua idea di addomesticare il capitale attraverso un patto con il lavoro a livello nazionale viene erosa dalla globalizzazione ma, allo stesso tempo, il suo addomesticamento globale risulta virtualmente impossibile. Già nei primi anni ’90 il filosofo americano Michael Walzer la chiamò la sinistra “vecchia”, destinata ad agire sulla difensiva. “Più un fortino – senza dubbio assediato – che un movimento.” Anche le destre conservatrici sono di fronte a nuovi problemi, ma godono di diversi punti di ancoraggio: dai conservatori democratici in Gran Bretagna fino ai conservatori autoritari in Polonia o Ungheria.

Quelli di sopra e quelli di sotto

In questo contesto, una parte della sinistra scommette sul “populismo”. In Spagna è stato Íñigo Errejón, fino a poco tempo il numero due di Podemos, a proporre di schivare l’asse sinistra-destra per poter superare le camicie di forza identitarie e ottenere una nuova maggioranza. In tal senso ha proposto un discorso contro la “casta” che, sulla scorta delle esperienze latinoamericane, dividesse il campo politico tra quelli di sopra e quelli di otto. Mélenchon ha fatto qualcosa di simile alle ultime elezioni francesi. E, in un certo senso, Bernie Sanders, che ha recuperato un certo “populismo” nel senso americano, che costruì a partire dalla fine del XIX secolo un antagonismo tra i deboli e i forti. Tutti loro hanno infranto i loro tetti di cristallo elettorali, pur senza riuscire a vincere.

Anche alcune estreme destre hanno percorso queste strade. Marine Le Pen è più “populista” di suo padre e fondatore del partito, Jean-Marie Le Pen, e dopo le ultime elezioni ci sono quelli che propongono di rinominare il Fronte Nazionale per indebolire i legami con un passato ultra scomodo. E persino alcuni dei populisti di destra hanno incorporato il rispetto per le minoranze sessuali e altre bandiere tradizionalmente considerate “di sinistra”, anche se spesso lo fanno premendo il tasto dell'”islamofobia”. In effetti, diversi leader europei di estrema destra sono gay. Ad ogni modo, quando si parla di populismi si rende necessario mettergli come cognome “di sinistra” o “di destra”.

Molto tempo fa, Norberto Bobbio – un moderato che ha difeso la validità della divisione sinistra/destra inteso come centrosinistra e centrodestra – ha scritto che “l’unica certezza della sinistra è quella di dubitare di sé stessa.” Ed Enzo Traverso, nel suo recente libro Malinconia di sinistra, afferma che “il marxismo ha funzionato a lungo come veicolo di una memoria di classe e delle lotte di emancipazione. Per farlo, ha periodizzato la modernità come una successione di rivoluzioni: una linea retta che congiunge 1789 e 1917, passando per il 1848 e la Comune di Parigi. Ma si trattava in realtà di una memoria teleologica, una memoria per il futuro”. Quella trasmissione è stata interrotta nel 1989 (e in parte prima). Lì la sinistra ha finito con il preferire l’ambiguo concetto di “progressismo”. Ma la scissione sinistra/destra presenta un altro problema: la destra spesso nega di essere di destra. Il termine “destra” in molti paesi presenta infatti una carica assiologica negativa. Pertanto, all’asse manca spesso le gente che si identifichi con una metà dello scacchiere. E non di rado “destra” è usato come un semplice epiteto.

Parlando di politica, l’asse sinistra/destra sembra tanto insufficiente quanto necessario e tanto reale quanto immaginario. Può assumere la forma di progressisti vs conservatori di fronte a questioni come l’aborto o il matrimonio gay, o di statalisti vs privatisti di fronte al patrimonio pubblico; può essere il complemento di altre categorie (nazionalista, populista, liberale); può riferirsi a identità più o meno di partito o a una chimica più sfuggente di emozioni o sentimenti. La destra e la sinistra possono essere, così come lo sono sempre state, democratiche o autoritarie. Nelle parole dello storico Horacio Tarcus, “c’è la resistenza a scomparire di una dicotomia che, in ultima analisi, si interseca ad altre nuove, costruendo, potremmo dire, una tabella a doppia entrata: globalizzazione finanziaria ‘dall’alto’ nella logica del FMI/globalizzazione sociale ‘dal basso’ sulla scia del Foro di Porto Alegre; comunitarismo fascistoide à la le Pen/comunitarismo sociale di teorici come Walzer, e così via.”

Così, quella casualità storica – cioè come si sedettero i partiti nell’Assemblea in seguito alla Rivoluzione francese – trasformata in una metafora organizzatrice del mondo politico continua ad essere un osso duro da rodere. E di tanto in tanto si prende qualche vendetta.

Pubblicato da Ideas, inserto di approfondimento del quotidiano argentino La Nación, il 21/5/2017. Traduzione di Samuele Mazzolini. 

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