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Lo Stato è un mezzo, non un fine

17 Settembre 2018
20 anni, sassarese. Studente di Scienze della Comunicazione a Bologna, attivista di Fridays For Future Italia, scrive o ha scritto per Repubblica, Jacobin Italia e altri. Conduce il Podcast l'Inviato.

Da un pò di tempo sulla stampa liberal e di sinistra viene effettuata un’equiparazione quantomeno forzata: termini come “sovranità”, “patria”, “stato nazione” vengono indissolubilmente legati all’armamentario retorico della destra. I sovranisti o presunti tali non possono che essere fascisti, reazionari, tendenzialmente xenofobi.

Ma questa accusa – e questo è un punto importante – viene rivolta più duramente non a quei politici che di destra lo sono realmente (Salvini, Le Pen, Orbàn) ma anche e sopratutto a tutti quelli che invece portano avanti politiche più che progressiste. E’ il caso di Mélenchon in Francia, attaccato per aver invitato i militanti a scendere in piazza col tricolore, o di Corbyn in Inghilterra, crocifisso per non aver sostenuto abbastanza euforisticamente la causa del Remain durante il referendum del 2016. Anche in Italia, nel nostro piccolo, ne abbiamo avuto un esempio recentemente con il debutto sulla scena pubblica dell’associazione di Stefano Fassina “Patria e Costituzione”. Un evento che normalmente sarebbe passato quasi inosservato è stato subissato di critiche pesantissime e velenose proprio dalla stampa di sinistra. Motivo: l’aver usato il termine “Patria”. E così per il settimanale Left Fassina diventa un “rossobruno”, mentre per il manifesto l’associazione arriverebbe addirittura a “omaggiare il fascista Badoglio”

Non si tratta di fare l’apologia di Fassina, con tutto il peso del suo passato da dirigente del PD, ma è il principio generale a interessarci. A questi cattivi maestri, infatti,  la sinistra perbene contrappone l’orizzonte unico, sacro e immutabile dell’europeismo. Contro chi vuole riportarci all’Europa degli stati nazione, che per qualche motivo viene fatta coincidere con quella del ventennio e mai con quella ben più gloriosa della prima repubblica, l’unica possibilità è spingere forsennatamente l’acceleratore sull’unificazione europea, a qualunque costo e qualunque sia il reale volere dei popoli che questa Europa la compongono.

Lo schema che ci viene proposto è dunque sempre lo stesso: europeismo progressista contro sovranismo di destra o, nel migliore dei casi, rossobruno. Ma se le cose fossero più complesse di così? La sovranità nazionale che propongono Mélenchon, Corbyn, ma anche la Wagenknecht in Germania e Fassina in Italia è ben diversa da quel “sovranismo” di cui parlano Salvini e la Le Pen. Per tutti loro, infatti, lo stato nazione non è un fine, ma un mezzo. Il ragionamento è che l’Unione Europea, con i suoi trattati di chiara matrice neoliberista e pressoché immodificabili, con la sua struttura profondamente antidemocratica, sia un terreno di gioco impraticabile per qualunque forza che voglia portare avanti politiche favorevoli per la gente comune. Un punto di vista, questo, assolutamente passibile di critiche, e anche chi scrive conserva remore per una visione così radicale. E d’altronde, gli stessi politici che la propongono non pensano ad un uscita dall’euro e dall’UE, quanto piuttosto ad una fase di trattativa e, come piano b, ad un rifiuto unilaterale dei trattati.  Quel che è certo, però, è che in nessun modo il patriottismo della France Insomnouse o di parte della Linke tedesca può essere paragonato al nazionalismo che animava il ventennio fascista, e nemmeno allo pseudo-sovranismo che porta avanti la lega (quella stessa Lega, ricordiamolo, che fino a qualche anno fa chiedeva a gran voce la secessione).

Ciò che invece ricorda il nazionalismo cieco e sordo è – sorpresa delle sorprese – proprio l’europeismo che i politici di sinistra sbandierano in continuazione. Pensiamo alla Boldrini, tra le più abili nel dissipare voti non appena apre bocca, che invoca per le elezioni europee un fronte con tutti dentro contro i “populisti sovranisti”, in perfetta sintonia con Angela Merkel, che descrive quella stessa tornata elettorale come uno scontro tra “europeisti e nazionalisti”. Tanto a destra quanto a sinistra, insomma, non importa quali siano i compagni di strada, né quali politiche questa Europa stia effettivamente portando avanti. L’importante è difendere l’UE, il “sogno europeo di Spinelli”, ammesso che Spinelli lo abbiano poi mai letto, l’Europa dei 70 anni di pace, sulla quale forse gli ucraini o i paesi dell’ex Jugoslavia avrebbero qualcosa da ridire. L’Europa, insomma, anche per la sinistra non è un mezzo tramite il quale migliorare le condizioni dei vita dei subalterni, ma un fine da difendere a qualunque costo, compreso il sacrificio delle classi popolari sull’altare di Maastricht e dei vincoli. E l’avere una nazione come fino ultimo e improrogabile non è forse nazionalismo? E l’imporre questa nazione anche contro la volontà dei popoli che la compongono non è forse tipico della destra peggiore?

Insomma, i veri rossobruni non sono forse gli europeisti senza sé e senza ma? Chiunque creda in una maggiore giustizia sociale e nella lotta contro le èlites deve affrontare la questione dell’Europa, e non esistono soluzioni semplici. Ma di certo la peggiore di tutte è affidarsi al dogma dell’UE, il cui più grande successo, come diceva Mario Monti, è la Grecia. La sua rovina, per la precisione.

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