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Non è “sovranismo”, è politica

15 Settembre 2018

Prendendo le mosse dalla condanna del governo ungherese e dei sui provvedimenti smaccatamente anti-liberali da parte del parlamento europeo, Luciana Castellina ha poi ampliato il suo ragionamento al rischio che il “sovranismo” contamini anche i nuovi ed i vecchi partiti della sinistra continentale. Da Mélenchon in Francia, al nuovo movimento – In Piedi – lanciato da una costola della Linke tedesca, fino a più piccole esperienze che stanno maturando anche nel nostro Paese, il rischio ravvisato è quello che la sinistra, dopo un trentennio di subalternità all’ideologia neoliberale, invece di trovare una strada autonoma compia un errore, per così dire, eguale e contrario, e finisca per portare acqua al mulino della nuova destra cedendo alla moda sovranista.

Al di là della mancata considerazione che l’atto di nascita del “sovranismo” risale probabilmente al vertice di Mar del Plata del 2004, quando i governi di sinistra di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela seppero dire no all’Alca (il progetto neoliberale di unione continentale architettato da Washington), anche solo rimanendo al panorama del vecchio Continente la riflessione di Castellina andrebbe problematizzata. A partire da una considerazione di fondo: la sovranità non è un’opzione politica tra le tante, ma è l’arena stessa della politica. Non c’è politica senza sovranità. Vivere ai margini della sovranità, come tanto la sinistra riformista quanto quella radicale paiono voler fare, vuol dire rinunciare alla politica. La scelta non è quindi tra chi vuole la sovranità e chi non la vuole. Ma tra quali forze debbano esercitarla – nel nostro caso: i popoli o i mercati; e – dando per scontato, come anche recita l’articolo 1 della nostra Costituzione, che la sovranità debba appartenere al popolo – quale sia il livello ottimale per il pieno esercizio di questa sovranità popolare.

Le istituzioni dell’Europa reale, rispetto alle altre che hanno accompagnato l’impiantazione della globalizzazione capitalistica, non si distinguono particolarmente per i livelli previsti di democrazia e di emancipazione sociale. Esse rispondono invece a due criteri ben precisi: lo svuotamento della sovranità popolare e la creazione di una nuova divisione continentale del lavoro. La costituzione formale e materiale dell’Unione europea attribuisce i poteri legislativi ad organi democraticamente irresponsabili ed ha come compito quello di istituire una società di mercato pienamente dispiegata. I vari memorandum dettati dalla trojika, messi in atto dalle varie elites nazionali, e piovuti addosso ai popoli nel corso della crisi davano tutti i medesimi input: privatizzare servizi, settori strategici e agenzie di assicurazione sociale; liberalizzare il mercato del lavoro; garantire la libertà dei capitali di essere investiti laddove peggiori erano le condizioni del lavoro o più remunerative le rendite. La distruzione delle prerogative dello Stato-nazione non ha avuto niente di naturale, né si sono manifestate tendenze presuntivamente “oggettive” del capitale. Si è trattato di mettere in campo una precisa opzione a tutto vantaggio delle oligarchie. Ne è nata un’Europa gerarchica: una struttura triangolare al cui vertice sta l’ex area del marco, il centro motore dell’accumulazione ad alto valore aggiunto; ed alla cui base stanno i paesi dell’orbita ex sovietica col ruolo di fornitori di manodopera a basso costo e quelli del sud fornitori di servizi tipo il turismo. Attraverso i numerosi salvataggi degli istituti finanziari, la crisi del capitale è stata trasformato nell’arco di poche notti in crisi del debito pubblico; e le misure imposte per ridurre quest’ultimo hanno invece avuto l’effetto di perpetrare la crisi sociale ed allargare le disparità tra Paesi ricchi e Paesi poveri.

La resistenza dei popoli si è manifestata a livello nazionale, e la destra ne ha approfittato anche per via della sostanziale subordinazione della sinistra – riformista e radicale – al progetto europeista. A questo punto si possono scegliere due opzioni: o accodarsi ad ipotesi fumose di “unione sacra” contro la minaccia sovranista (Calenda in Italia, Macron a livello continentale, che recentemente ha ottenuto il plauso di Tsipras), o contendere alla destra il campo del ripristino della sovranità popolare.

Una sovranità popolare da ricostruire, ovviamente, su basi antitetiche rispetto a quelle delle nuova destra. Su basi, verrebbe da dire, patriottiche e non nazionaliste. Considerando la Patria, come già faceva Gramsci, come “patria aperta”: aperta all’inclusione sociale di tutti – nativi e migranti – e alla cooperazione internazionale, come vuole la nostra costituzione nazionale. Questo a ben vedere gioverebbe anche al rilancio dell’integrazione europea. Perché, se si fa attenzione alle parole, quello cui si è assistito fino ad oggi non è stato un processo di integrazione, ma di subordinazione. Integrare vuol dire innanzi tutto lasciare libertà ai paesi più colpiti dalla crisi di ricostruire i propri apparati produttivi, a partire da un rovesciamento dei rapporti di forza tra Stato e mercato che le istituzioni dell’europa reale oggi rendono impossibile.

La lotta per sottrarre alle logiche di mercato i servizi pubblici, per creare lavoro buono e ben pagato, per il ristabilimento della pace nel mediterraneo non può che passare da un pieno ripristino della sovranità popolare.

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