Cultura | Teoria

Coronavirus: la Cina è vicina

I cambiamenti di egemonia a livello internazionale sono spesso segnati – o accelerati – da situazioni fuori dall’ordinario. Che siano grandi crisi economiche o sanguinose guerre, questi avvenimenti sanciscono e comprovano una discontinuità di equilibri globali in uno spazio di pochi mesi, concretizzando cambiamenti fino a qualche tempo prima visti come lontani. Il coronavirus si appresta a diventare uno di questi momenti storici particolarissimi. Numerosi segnali indicano come la Cina potrebbe scalzare gli Stati Uniti d’America nella leadership globale. Un processo in corso da decenni, certo, ma accelerato dalla crisi sanitaria – e dalla sua gestione.

L’immagine più rappresentativa di questo cambiamento la si è avuta la scorsa settimana. Mentre gli Usa si apprestavano a mandare in Europa venti mila soldati per la più grande esercitazione militare da decenni, la Repubblica Popolare Cinese inviava all’Italia in piena pandemia medici, ventilatori polmonari, tamponi e milioni di mascherine. Gli Stati Uniti concentrano le proprie risorse in prove di forza anacronistiche e costose, mentre la Cina ha ben compreso che l’egemonia geopolitica non è solo questione di potenza economica, tecnologica e militare, ma pure di influenza culturale e politica. Gli stessi Stati Uniti, d’altro canto, sancirono il loro predominio sull’Europa occidentale con il celeberrimo Piano Marshall.

Giovanni Arrighi ha mostrato che da quando, col procedere dell’età moderna, ha preso forma il sistema mondo capitalista nel quale siamo tutt’oggi immersi, le transizioni egemoniche da una potenza all’altra hanno riscontrato alcune caratteristiche ricorrenti, al di là delle ovvie specificità sociali economiche e politiche di ciascuno degli attori coinvolti. È così successo che il testimone dell’egemonia globale sia passato, nel corso dei secoli, dalle città-stato italiane alla repubblica olandese, da questa all’Impero britannico per poi approdare al di là dell’Atlantico; ed in ognuna delle fasi di transizione si sono ripetuti alcuni dei meccanismi che vediamo oggi all’opera in una fase di potenziale passaggio di questo testimone ideale dagli Stati Uniti alla Cina.

Innanzi tutto, una pressione sui profitti che si fa insostenibile spinge i capitali ad allocarsi dalla potenza declinante a quella nascente, che nel periodo della transizione approfitta per importare tecnologie destinate a migliorare il processo di produzione di merci e a crearne di nuove. La pressione sui profitti avviene o per l’aumento della concorrenza tra sistemi produttivi, o per i miglioramenti salariali conquistati dalla manodopera impiegata, o per la somma dei due fattori. È ciò che è avvenuto in Occidente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. La potenza egemonica, che assiste così alla caduta degli investimenti produttivi, cerca di solito di favorire l’afflusso o la permanenza dei capitali attraverso la finanziarizzazione dell’economia e l’incentivazione della speculazione. Ancora una volta, ciò è avvenuto all’interno del sistema euroatlantico tra anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo. Una economia basata sulla finanza anziché sulla produzione si espone però ad ulteriore crisi, ed inoltre, favorendo l’aumento della  disparità economia e della polarizzazione della ricchezza, provoca di solito un clima di instabilità sociale. Proprio come avvenuto da noi a partire dal 2008. Infine le fasi di transizione che si aprono in questi frangenti provocano disordini internazionali ai quali la potenza al tramonto risponde con la guerra, per condurre la quale – come puntualmente succede oggi – essa finisce per indebitarsi pesantemente con la potenza in ascesa. La Cina detiene una quota maggioritaria del debito pubblico statunitense accumulato per via degli sgravi fiscali concessi ai grandi capitali per contrarrestarne la fuga e della famigerata war on terror.

Le egemonie hanno però a che vedere anche con qualcosa di più impalpabile, e cioè la disposizione di chi l’egemonia la subisce ad accogliere la potenza egemone come un modello, o comunque come un attore i cui benefici sono percepiti come i benefici di tutti. Ciò che va bene per la GM va bene per gli Stati Uniti, diceva Henry Ford all’alba della sua egemonia sul sistema produttivo americano. Da questo punto di vista la Cina, paese lontano, storicamente isolato ed autoritario, patisce un forte deficit. Ma la gestione dell’epidemia potrebbe darle la possibilità di migliorare non solo la propria capacità di scalare le posizioni della potenza globale, ma anche di migliorare la propria immagine.

Ogni egemonia si basa insomma sulla credibilità della potenza globale. Credibilità nei rapporti internazionali – e per ora la Cina ha saputo dimostrare decisamente più tatto degli Usa nelle sue proiezioni geopolitiche -, ma pure nel modello economico e sociale portato avanti. Da decenni, mentre gli Stati Uniti si facevano i paladini di un neoliberalismo solo parzialmente corretto nell’ultimo decennio, la Cina sta elaborando un modello di sviluppo basato sull’economia mista a guida pubblica. Un modello di successo.

Il coronavirus sarà un banco di prova anche per testare la bontà – e la sostenibilità – di questi due diversi modelli economici, quello liberal-capitalista statunitense e quello socialista-autoritario cinese. Come sia andata in Cina lo sappiamo già. Grazie ad una straordinaria mobilitazione popolare guidata dal Partito Comunista e a severe misure di controllo, il coronavirus pare essere stato domato in poco meno di due mesi. Negli Stati Uniti, invece, la situazione si fa già oggi preoccupante, come notato da Walter Ricciardi. L’assenza totale di una sanità pubblica potrebbe portare ad una vera e propria «catastrofe», con l’assenza pressoché totale di capacità di contenimento del virus.

Dobbiamo avere paura della nascente egemonia cinese? Certo non è auspicabile la trasposizione del suo modello politico nelle nostre società, così come per molti versi gli standard delle prestazioni sociali e lavorative di quel paese rimangono al di sotto di quelli che ci siamo conquistati in Occidente. Tuttavia alcuni segnali di controtendenza in questa direzione si avvertono negli ultimi anni nella stessa Cina, che registra ad esempio una netta crescita dei salari. Ma soprattutto, a differenza dei Paesi che fino ad oggi si sono passati il testimone dell’egemonia, la Cina non pare desiderosa di imporre a nessuno un modello prefissato. Questo aprirebbe le porte per la costruzione di un nuovo ordine multipolare a livello internazionale, e lascerebbe ad ogni paese e ad ogni popolo la libertà, e la necessità, di scegliere la propria via e di (ri)conquistarsi i diritti perduti.

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