Cultura | Teoria

Dalla parte del Lavoro

30 Agosto 2019

Non deve stupire se Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” e che reclama “non reddito ma lavoro per tutti”, sia tornato negli ultimi tempi a ribadire con forza e veemenza la centralità del diritto al lavoro, di rango certo superiore al diritto di proprietà, chiedendo di non “ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici” poiché nel rapporto di lavoro agiscono soggetti “titolari di una dignità e non solo di un prezzo” (come è invece nella concezione mercificata del lavoro). C’è invece da chiedersi perché la stessa riscoperta di Marx e della sua critica al capitalismo, indotta dalla crisi economico-finanziaria e dai grandi cambiamenti sul fronte dell’innovazione tecnologica, non si sia spinta – a sinistra – fino al recupero del Marx che, con Hegel, vede nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, modifica se stesso attribuendosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità.

Agli occhi di Marx il lavoro, nella sua più vera e intima essenza, rappresenta una “manifestazione di libertà”, una forma di “oggettivazione/realizzazione del soggetto”, espressione autentica di “libertà reale”. In tutte le forme storiche succedutesi il lavoro ha però sempre avuto (quale lavoro schiavistico, servile, salariato) un carattere “repellente”, ovvero un tipo di “lavoro coercitivo esterno”. In altre parole, mai si sono verificate le condizioni soggettive e oggettive che permettessero al lavoro di diventare “attraente”, di costituire “l’autorealizzazione dell’individuo”. Affinché venga recuperata la sua vera e profonda essenza, il lavoro deve cessare di essere “antitetico” e farsi “libero”. Ciò non significa, ribadisce Marx, che esso possa diventare, come vorrebbe Fourier, un mero gioco: un “lavoro realmente libero, per esempio comporre, è al tempo stesso la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia”. E tanto più serio e intensivo sarà il lavoro quando esso diventerà veramente “universale”, cioè processo di produzione consapevolmente istituito e controllato dagli uomini “come attività regolatrice di tutte le forze naturali”. 

Produrre in modo universale, produrre liberi dal bisogno fisico, produrre e riprodurre l’intera natura, porsi liberamente di fronte al prodotto poiché questo è manifestazione della coscienza umana, produrre secondo la misura di ogni specie e secondo le leggi della bellezza: ecco l’essenza del lavoro in quanto fare totale, in quanto oggettivazione universale e libera (perché non imposta da scopi esteriori) dell’essenza umana. 

In definitiva, la libertà comunista è per Marx non l’uscita dalla produzione e dal lavoro tout court, ma il superamento del lavoro determinato da una necessità che, per il singolo soggetto, si presenta come eteronoma ed etero-finalistica.

In ogni caso, alla base del tentativo di rimozione della centralità del lavoro degli ultimi anni opera senz’altro quell’idea non di “liberazione del lavoro” ma di “liberazione dal lavoro” che da sempre anima teorici come Toni Negri. Ma per interpretare questa reticenza, quando non vero e proprio ripudio, bisogna risalire anche più in là, ai guasti culturali provocati dal neoliberismo e alle “traduzioni filosofiche” (ci sia concesso l’uso di questo termine) dell’invisibilità politica del lavoro che possiamo ritrovare in alcune correnti di pensiero. Basti pensare in particolare alle riflessioni di Hannah Arendt, che, dei regimi totalitari, denunziava la riduzione della vita activa a lavoro e dell’animale politico a animal laborans. Per non parlare delle implicazioni negative esercitata dal decostruzionismo à la Deridda e à la Foucault. Se si accettano interamente i postulati della post-modernità, si giunge inevitabilmente ad una avversione per ogni critica della neutralità della tecnica e a contrastare qualsiasi tentativo di recuperare concetti universali come la dignità umana, la giustizia, la verità, l’autonomia, il valore del lavoro. 

Ma così si dimentica l’enorme significato, anche antropologico, racchiuso nel concetto di lavoro. Si trascura che il lavoro è fattore vitale dell’identità del soggetto e attribuzione di significato all’esperienza esistenziale di ognuno, esprime un’intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni molteplici (con il contesto entro cui l’attività lavorativa si svolge, con il sapere e l’esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione e un orizzonte mancante, al quale si aspira. Non a caso nella Costituzione italiana la triplice centralità del lavoro – antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etico-politica (il lavoro viene considerato il valore fondativo della Repubblica, nonché il modo prevalente attraverso il quale si realizza la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, assume quindi un valore unitario ed inclusivo, rappresentando «un titolo di appartenenza alla comunità nazionale, alla cittadinanza», per dirla con Gustavo Zagrebelsky), economico-sociale (la Costituzione impegna il legislatore a promuovere le condizioni di effettività del «diritto al lavoro» e disciplina l’ambito dei rapporti economici in una misura certo favorevole agli interessi del mondo del lavoro) – segna un profondo distacco dalla concezione elitaria arendtiana, sotto il profilo dei fondamenti di eguaglianza, di libertà, di autodeterminazione, ma anche sotto il profilo delle connessioni tra “operare” ed “agire” (intesi separatamente dalla Arendt) in cui l’homo faber incrocia e incontra l’homo politicus in un nuovo percorso umanistico. (Pennacchi, 2018)

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