Cultura | Teoria

Non c’è democrazia senza conflitto

15 Luglio 2019

Democrazia e conflitto: i primi pensieri vanno al sessantotto, alla Guerra di Liberazione, alla lotta degli operai per le otto ore lavorative. Ma nel mondo d’oggi che cosa significa pensare al binomio democrazia e conflitto? Il mondo d’oggi è un mondo capitalistico, perché capitalistica è la forma di vita che viviamo, un vita che ha adottato un idea di società a cui è stato dato il nome di neoliberismo: un’idea che ha visto la luce e si è espansa attraverso uno dei modellamenti della natura umana più drastici e radicali di sempre. Il neoliberismo permette di fare la democrazia, o meglio ancora di fare la democrazia che vorremmo? Tollera l’esistenza di quegli elementi conflittuali che potrebbero essere l’ antivirus del processo democratico? Con ragionamenti suggestioni e alcuni accostamenti cercheremo di capirlo.

Ho parlato di neoliberismo come di un’ idea di società, una visione del mondo; quattro sono i pilastri che sostengono questa costruzione. Il primo pilastro è il METODO, quello che si rifà all’individuo: parliamo di individualismo metodologico in quanto al centro dell’agire c’è solo l’individuo; solo l’ individuo ha una sua reale consistenza ed esistenza reale nella storia. Quale la diretta conseguenza di questo? L’indebolimento della rete che gli individui creano, la società, classi sociali, i corpi intermedi.

Il secondo pilastro è la GERARCHIA. Quando presupponiamo la debolezza delle classi sociali ma che conta solamente l’individuo ne consegue che l’unica libertà che deve essere tutelata in assenza di corpi sociali da preservare e difendere, è quella individuale o, come si sente spesso dire, dell’”agente rappresentativo”; sull’ individuo deve essere declinata la libertà non su costruzioni ideologiche di sinistra, come la classe lavoratrice o gli sfruttati. La società non esiste diceva la Thacher. Il conflitto, dicono i liberisti, non ha senso perché ci mettono gli uni contro gli altri. Una volta queste libertà venivano chiamate diritti borghesi e oggi possiamo definirle diritti civili. Centrando i discorsi e i ragionamenti sui diritti civili non possiamo che constatare che si rimane imprigionati dalla stessa ideologia che fa da vestito alla democrazia liberale che stiamo criticando. Senza i diritti sociali i diritti civili sono solo accessori luccicanti.

Terzo pilastro è la VISIONE DELLO STATO. Possiamo cominciare col dire che il liberista ha un’avversione categorica per l’intervento dello stato in economia; ma quale stato? Semplificando molto, due sono i modelli di stato che possiamo prendere ad esempio: lo stato neoliberista di matrice anglosassone e lo stato ordoliberista di matrice tedesca. Il primo considera ingenuamente il mercato capace di autoregolamentarsi determinando in maniera armonica la perfetta e giusta allocazione delle risorse, il laissez faire, il secondo, invece considera lo stato garante della libera concorrenza ed elemento regolatore del libero sviluppo del mercato. E come lo fa? Facendo proprie le leggi del mercato e facendosi garante del ruolo del mercato. Lo stato deve pertanto tutelare la libertà privata, la libera iniziativa e assicurare un livello minimo e universale di protezione sociale in modo tale che ogni cittadino possa effettivamente godere di un pari trattamento di fronte alla legge. L’introduzione dell’art. 81 in costituzione, quello che impone il pareggio di bilancio, l’ equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio è diretto riflesso di questa visione.

Quarto punto è la VISIONE DEL MERCATO. Abbiamo economie sociali di mercato fortemente competitive, quel “fortemente competitive” introdotto dal Trattato di Lisbona del 2007. Perché sociale? Perché all’interno di questo modello il mercato è in grado di determinare la perfetta allocazione delle risorse, creando quell’equilibrio perfetto che secondo la favolosa legge di Say (investimenti 1000 reddito 1000 spesa 1000) si determina spontaneamente nel momento in cui vengono assecondati i normali interessi del mercato. All’interno di questa cornice si colloca la democrazia con elezioni libere, giornali di diverso orientamento, la libertà d’impresa nel mercato dove le persone possono vivere più o meno come gli pare a seconda della propria capacità di spesa (libertà formale), comperare e consumare, viaggiare – la nostra normalità democratica. Ma questa democrazia, per dirla con le parole di Christopher Lasch, ha un futuro? E’ viva? Oppure sta assumendo la forma di un tabù?

Io opterei per quest’ultima opzione. Perché l’idea di fondo, quella che passa, quella che considera lo sviluppo dei rapporti sociali e produttivi come il portato di un ineluttabile processo naturale, che cos’è se non un principio che accoglie per vero o per giusto qualcosa senza esame critico o in discussione? Quante volte abbiamo sentito queste quattro parole magiche, ce lo chiede l’Europa? I processi storici non si dispiegano per volontà di un dio benigno o maligno che sia ma attraverso specifici rapporti di forza che riflettono la peculiare fase produttiva del sistema dominante, il sistema capitalistico: un sistema economico sociale che ha saputo adattarsi e modificarsi nel corso del momento storico in cui si è trovato ad essere: anche oggi, nella fase storica del dominio del capitale finanziario e produttivo internazionalizzato.

Alla luce di tutto quello detto fino ad ora è necessario comprendere il valore altissimo del conflitto. Margaret Thacher nel momento in cui andava sostenendo “la società non esiste” si pose come l’apripista di un processo globale che tendeva a ridurre lo stato sociale e i servizi pubblici al fine di decostruire le categorie sociali che con decenni di critica e lotta avevano permesso lo sviluppo di un elevato livello di controllo e tensione verso la giustizia sociale; di fatto voleva mettere in crisi la narrazione della sinistra che fondava il progresso umano sul conflitto sociale di classe. Create quindi le condizioni per un corto circuito nella società, in maniera forzata e disancorata dalla realtà storica, indeboliti i corpi intermedi per far spazio agli agenti del mercato, perchè cercare lo scontro e lottare se siamo tutti sulla stessa barca? Se abbiamo tutti gli stessi interessi? In un mondo così fatto hanno diritto di realtà solamente due gruppi: produttori e consumatori, il salario è naturale e di conseguenza l’unico problema che può nascere in un simile contesto è un problema di offerta, un problema, credo di averlo già ripetuto più volte, legato alla perfetta allocazione delle risorse: lo sviluppo armonico del mercato si realizza solamente quando avviene l’incontro tra domanda e offerta ovvero quando si determina la corretta quota di reddito che entra nelle tasche dei lavoratori e di profitto che entra nelle tasche dei capitalisti. Se il mercato si fa garante della perfetta allocazione delle risorse il problema della domanda non esiste.

Scrivendo queste parole mi è venuto in mente uno dei più grandi scrittori svizzero di lingua tedesca, Max Frisch; compagno per tanti anni di Ingeborg Bachmann, accusato di comunismo, spiato e pedinato per anni dalla CIA, diventato poi punto di riferimento di generazioni di scrittori e giovani in tutta Europa Nel 1986 in piena epoca reganiana vinse un premio all’Università dell’Oklahoma e decise di metterlo a disposizione per la costruzione di una scuola nel Nicaragua sandinista. Negli stessi anni, poco prima di morire, scrisse un discorso “Alla fine dell’Illuminismo c’è il vitello d’oro” con il quale afferma la sua amara tesi che il progetto di emancipazione incominciato con l’illuminismo è finito con l’ennesima rivolta dei ricchi contro i poveri. L’illuminismo ci ricorda Frisch ci ha lasciato il compito e l’ impegno a lottare contro le superstizioni che sono sempre fatali. E la superstizione contro cui bisogna lottare in questi giorni è una presunta mancanza di alternativa al mondo così com’è”. E come non pensare allora al legame sotterraneo che potrebbe unire questa visione del mondo a quella che ci ha consegnato Mark Fisher con il suo realismo capitalista?

Ma torniamo all’idea che ci sono solamente produttori e consumatori. Andiamo ai classici. Con Adam Smith, filosofo ed economista scozzese a cui associamo i concetti di divisione del lavoro e mano invisibile, l’idea del consumatore trova un posto centrale nell’ analisi economica. Quando diceva “Non è dalla generosità del macellaio, del birraio o del fornaio che noi possiamo sperare di ottenere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi” presupponeva implicitamente che la società esistesse e tanto più il conflitto generato da interessi contrapposti. La natura dei prezzi, o meglio ancora, il prezzo naturale dei beni o il saggio naturale di profitto significa per Smith che c’è una legge naturale che lo determina nella stessa maniera in cui ci sono le leggi sociali che normano lo scontro tra diversi interessi di classe. Tutto ciò è individuabili dall’indagine scientifica. Chi raccoglie questa intuizione e la sviluppa in seguito è Ricardo quello che introduce il ragionamento astratto in economia. Attraverso una serie di passaggi logici ci dimostra che c’è una relazione inversa tra salario e profitto: se cresce il primo, deve diminuire il secondo e viceversa. Se i lavoratori vengono pagati di più è conseguente che i profitti che i padroni ricaveranno saranno inferiori. Un conflitto di classe ancora più forte di quello già implicito nella teoria del valore-lavoro si evince da un fatto concreto: dal conflitto tra capitalisti e proprietari terrieri. I primi non volevano i dazi. I secondi chiedevano l’introduzione dei dazi frontalieri per rendere meno vantaggiose le importazioni di grano dall’estero e così poter vendere il proprio grano ed evitare che la concorrenza facesse scendere il valore di questo bene di prima necessità. Di conseguenza per i capitalisti l’ostacolo alla concorrenza per tenere i prezzi del pane alti significava per i dover pagare di più i lavoratori dell’industria. Dove porta tutto ciò? Secondo Ricardo gli investimenti sono sostenuti nel momento in cui c’è un profitto: è dal risparmio che possono partire gli investimenti. Non sono gli investimenti che determinano il risparmio: questa è la fiaba liberista. Se quindi bisogna generare risparmio e solo con alti profitti lo si può fare, è cruciale per Ricardo che i dazi non vengano inseriti. In un contesto siffatto salari e profitti sono legati in maniera inversamente proporzionale e cos’è questo se non un’ introduzione al conflitto di classe? O una denuncia dell’ elemento costitutivo del capitalismo, il conflitto e la contrapposizione degli interessi delle diverse parti in causa.

Vedete, i classici ci dicono che il modello conflittuale è intrinseco e costitutivo del modello capitalistico. Lo stesso Gramsci in alcune pagine dei Quaderni dal Carcere ribadisce che “nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano a far parte di rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze materiali di produzione. L’insieme di questi rapporti di produzione forma la struttura economica della società, la base reale, sulla quale si innalza una superstruttura giuridica e politica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali e di coscienza”. Quando le basi economiche e materiali cambiano anche la sovrastruttura cambia- forme giuridiche, politiche, religiose artistiche o filosofiche. “(…)non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso, (…) ma piuttosto si deve spiegare questa coscienza dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto esistente tra le forze produttive sociali e i rapporti di produzione”.

Arriviamo agli anni Settanta. Altro passaggio importante nel processo di demolizione sociale degli anni Settanta è stato il lavoro della Commissione Trilaterale. Nel 1973 in un mondo ancora bipolare David Rockfeller fonda quest’organo privato che diventerà un mezzo di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade: Giappone Europa e America Settentrionale. Tratta problemi che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Nord Sud ed Est Ovest, il debito dei paesi poveri. Costituita da privati cittadini, uomini d’affari, politici e intellettuali, meno mediatizzata del Forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva, attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni. Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, le elite che si riuniscono all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un “buon governo” internazionale. La cittadella trilaterale veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al disopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini. Tre sono le idee fondanti attorno alle quali sviluppa il suo lavoro:

  1. la necessità di un nuovo ordine internazionale.

2) la sua difesa attraverso la promozione delle democrazie liberali quali centro vitale dell’ economia, della finanza e della tecnologia: un coro che canta con un’ unica voce, un centro che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ ordine che esso si è dato nella virtù della globalizzazione e della liberalizzazione delle economie.

3) l’avversione per i movimenti popolari.

Quest’ultimo è il punto centrale del rapporto del 1975, redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki col titolo: La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle Democrazie. I ceti dominanti sono molto pessimisti sul loro futuro a causa di quelli che loro chiamano gli eccessi di democrazia, espressi dalle manifestazioni dell’ epoca che mettevano in causa la politica ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti politici e sociali; lo scritto quindi vuole analizzare e denunciare le minacce che si profilano per lo stato democratico. Nello studio vengono indagate peculiarità economiche e differenze sociali di un sistema internazionale rappresentato da tre grandi macro aree quali Europa Occidentale Giappone e Nord America. La tesi che vuole dimostrare la ricerca è che i rapporti internazionali, basati su relazioni tra Nord Sud ed Est Ovest (linee di conflittualità) si stanno sviluppando invece che su modelli di cooperazione, su forme di antagonismo che non permettono la governabilità.

Ecco cosa dice Crozier in uno dei suoi passaggi: “più i sindacati e i partiti operai accettano procedure regolari, più s’indebolisce la loro capacità di mobilitare i propri seguaci e far veramente pressione sul sistema; oppure Huntington: “il funzionamento efficace di un sistema politico richiede, in genere, una certa dose di apatia e di disimpegno da parte di certi individui e gruppi … ciò è intrinsecamente antidemocratico ma ha anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare efficacemente”. Watanuki “l’odierna democrazia non potrebbe esistere senza il riconoscimento dei sindacati e l’ appoggio da parte di questi”.

In conclusione, i punti toccati, ovvero l’idea di neoliberismo, il pensiero dei classici e l’inversione di marcia della fine degli anni settanta mi servono per dire che il rapporto tra democrazia e conflitto è molto simile a quello che è il rapporto tra il nostro organismo e i virus. Noi senza di essi non funzioniamo. Si tratta di contrastarli o conviverci. Negli anni Ottanta mentre veniva sequenziato il genoma umano, si scoprì che solo il 2% sono geni, quelle cose che servono alla codifica per le proteine di sangue, ossa e organi. Ben 10% del DNA, cinque volte tanto i geni, sono invece gli elementi retrovirali integrati, rimasugli di vecchie infezioni che sono diventati parte integrante del nostro DNA. Inoltre la placenta, ciò che molto caratterizza noi mammiferi, può formarsi solamente grazie ad alcune proteine di origine retrovirale. Il capitalismo fa male alla salute, aver creduto che non c’è alternativa è stato il virus che ci siamo beccati. Essere resilienti, e conviverci, o resistere e contrastarlo sono le due opzioni che abbiamo davanti.

Il testo riproduce la relazione di Ivan Volpi (Potere al Popolo Udine) fatta a Gorizia il 16 giugno 2019 nel corso dell’incontro organizzato da Senso Comune Udine “Fare la Democrazia”.

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