Cultura | Teoria

Piketty e la sinistra braminica

10 Aprile 2020

Il secondo disco dopo un album di successo è sempre quello più rischioso. Questo vale per i cantanti ma anche per i libri best-seller delle scienze sociali. Capitale e Ideologia, la nuova grande fatica dell’economista francese Thomas Piketty, che uscirà presto anche in italiano, è in qualche modo il sequel del libro best-seller Capitale nel XXI secolo che, pubblicato nel 2013, ha già venduto milioni di copie in tutto il mondo. E di quel libro – che ha contribuito a riportare l’attenzione del dibattito economico e politico sul tema della diseguaglianza – questo nuovo volume ha non solo la dimensione (oltre mille pagine), ma anche l’ambizione. Si propone come uno studio a ampio raggio spaziale e temporale, non solo delle diseguaglianze, tema del precedente libro, ma anche delle ideologie che contribuiscono a legittimare la diseguaglianza.

La domanda fondamentale è in che modo la diseguaglianza, fenomeno che pone fette consistenti della popolazione in uno stato di subalternità, possa sostenersi. Per rispondere a questo quesito Piketty si avventura in una analisi storica di lungo periodo, che punta a stabilire come tale legittimazione della diseguaglianza abbia avuto luogo in differenti fasi storiche. Piketty parte dagli albori della modernità, da quelle che chiama le “società ternarie”, rette da tre centri di potere, la nobiltà, il clero e la borghesia, ciascuno dei quali adotta una diversa logica di legittimazione. Passa poi a analizzare le società schiaviste e coloniali e il modo in cui esse legittimano il lavoro forzato e la politica di conquista. Si prosegue fino ad arrivare al Novecento, esaminando la trasformazione dei regimi di proprietà, e l’intervento crescente dello stato. Il punto di approdo di questa ricostruzione storica sono le società social-democratiche del dopoguerra, che Piketty descrive come caratterizzate da “un’eguaglianza incompleta”. La diseguaglianza economica viene ridotta ma certo non eliminata. Al contempo nuovi fattori, e in particolare il livello di educazione, contribuiscono a creare nuovi fonti di diseguaglianza.

La parte più interessante del libro per chi si occupa di politica contemporanea è tuttavia la quarta. In questa Piketty analizza la trasformazione della base elettorale dei differenti partiti politici. In questa parte, facendo leva su un base dati impressionante su diversi paesi occidentali, Piketty mette a nudo le ragioni delle attuali difficoltà della sinistra e la frattura che si è aperta tra sinistra e classi popolari, tema di cui Senso Comune si occupa da molto tempo. In sintesi per Piketty se l’elettorato di sinistra un tempo era in media povero e ignorante, come ci si aspetterebbe da un elettorato di subalterni, è divenuto progressivamente educato e di classe media. La svolta verso l’elettorato educato avvenuta già a partire dagli anni ’70 è stata seguita da una svolta verso un elettorato a medio e alto reddito nei decenni successivi. In questo modo, “la sinistra elettorale è stata trasformata dal partito degli operai nel partito degli istruiti”[i].

La sinistra braminica

Secondo Piketty la sinistra socialista ha passato il testimone a una sinistra elitaria, una sinistra “braminica”, ovvero una sinistra la cui principale base elettorale è costituita da una intellettualità diffusa, che comprende insegnanti, ricercatori, studenti, giornalisti, la classe creativa e così via. Al contempo la sinistra ha perso il suo tradizionale radicamento tra i lavoratori manuali. In questo contesto “i lavoratori ritengono sempre più che le parti che avrebbero dovuto rappresentarli abbiano avuto sempre meno successo nel farlo, soprattutto nel contesto del calo dell’occupazione industriale e della globalizzazione senza una regolamentazione collettiva sufficiente” [ii].

Ma questa tendenza elitaria non si limita solo alla sinistra. Anche la destra tradizionale è diventata fortemente elitaria. Piketty la descrive come una “destra mercantile”, che si è andata sempre più concentrando attorno a un elettorato ad alto reddito e alto patrimonio. Quindi sia la destra che la sinistra tradizionali perseguono due agende meritocratiche in qualche modo speculari. “La sinistra braminica apprezza il successo scolastico, il lavoro intellettuale e l’acquisizione di diplomi e conoscenze; la destra mercantile enfatizza la motivazione professionale, il talento per le capacità commerciali e di negoziazione. Ogni gruppo invoca un’ideologia di merito e di disuguaglianza”.[iii].

Abbracciando il verbo del mercato, dell’innovazione e dell’imprenditorialità, la sinistra ha spalancato la porta all’offensiva del populismo di destra, che fa breccia nell’elettorato che Piketty descrive come social-nativista, ovvero caratterizzato da un lato dalla domanda di politiche redistributive e dall’altro dall’opposizione all’immigrazione. Questo elettorato è uno dei quattro quadranti dell’elettorato contemporaneo. Gli altri sono: gli egualitari internazionalisti (intercettati per lo più dalla sinistra radicale), gli inegualitari internazionalisti (intercettati per lo più dal centro-sinistra e in particolare dal macronismo e dal renzismo), e infine i nativisti anti-egualitari (intercettati dal centro-destra tradizionale). Questa mappa dell’elettorato offre la possibilità al populismo di destra di fare breccia nel quadrante social-nativista, caratterizzato dal voto operaio tradizionalmente fedele alla sinistra.

egualitarismo anti-egualitarismo
nativismo social-nativisti

(elettorato su cui cerca di fare breccia populismo di destra: Trump, Salvini, Le Pen ecc.)

nativisti-antiegualitari

(centro-destra tradizionale: Fillon, Forza Italia, Merkel e parte elettorato nuovo populismo di destra)

internazionalismo egualitaristi-internazionalisti

(elettorato sinistra radicale: Podemos, France Insoumise ecc)

internazionalisti-antiegualitari

(centro-sinistra pro-mercato: Bonino, Macron, Renzi, Biden)

Tuttavia, e questo è un punto importante, non è vero che ci sia stato un travaso completo del voto operaio dalla sinistra alla nuova destra populista. Quello che afferma Piketty è che in realtà il voto operaio e dei cittadini a basso reddito è finito in buona parte nelle fila dell’astensionismo, aumentato a dismisura negli ultimi anni. Inoltre Piketty mette in luce una fondamentale difficoltà del populismo di destra a assorbire questo voto operaio. Ciò è dovuto al fatto che le basi tradizionali del voto della destra populista risiedono nell’elettorato poujadista composto da artigiani, commercianti e piccoli imprenditori. Questo elettorato è fortemente opposto alle tasse, mezzo che sarebbe invece necessario al fine di reperire le risorse per programmi redistributivi a favore delle classi subalterne e combattere la diseguaglianza.

Per tenere assieme voto poujadista e voto operaio nel continente europeo la destra populista cerca di dare tutta la colpa della diseguaglianza alle strutture di governance europee accusate di privare lo stato di risorse necessarie a creare lavoro e dare sussidi ai poveri. Tuttavia questa narrazione è come un gioco delle tre carte che serve per nascondere la difficoltà della parte poujadista del proprio elettorato a accettare politiche redistributive. E in questo la presenza dell’Unione Europea e della sua politica tecnocratica offre alla destra populista un’ottima scusa per celare la riluttanza di Salvini e compagnia a fare politiche redistributive. Questo è evidentemente un punto di possibile spaccatura del blocco nazional-populista su cui le forze di sinistra dovrebbero premere con più forza al fine di recuperare parte del voto operaio.

L’illusione della politica transnazionale

Quanto alle soluzioni rispetto a questo quadro la proposta di Piketty è meno convincente dell’analisi. Piketty ammette che la divisione dell’elettorato in diversi quadranti pone evidenti difficoltà nella costruzione di un fronte elettorale comune. Per Piketty, quello che serve a superare l’impasse è una nuova ideologia che descrive come un socialismo partecipativo che accompagni redistribuzione a trasparenza e protagonismo dei cittadini. Questa nuova visione politica dovrebbe concentrarsi su misure redistributive tra cui figurano in prima fila tasse sul patrimonio. Del resto come già visto in Capitale nel XXI secolo, Piketty considera il patrimonio piuttosto che il reddito la vera casamatta della diseguaglianza nelle società attuali. Una patrimoniale permetterebbe di avere risorse per migliorare le condizioni di vita di chi non ha la fortuna di avere risparmi e proprietà. Il libro contiene anche alcune proposte politiche concrete. Tra questa una sorta di eredità per tutti i cittadini, un piccolo patrimonio offerto dallo stato che sarebbe elargito ai giovani cittadini al compimento dei 25 anni, in modo da garantire loro sicurezza economica.

Rispetto al primo libro, questa seconda fatica di Piketty ha ricevuto critiche abbastanza forti dagli esperti e dagli opinionisti. Krugman lo ha accusato di avventurarsi su un terreno troppo vasto, e di fare la figura del tuttologo dilettante. Paul Mason ha invece accusato Piketty di proporre un socialismo astratto, un “socialismo senza lotta di classe”. È ovvio che in Piketty non troveremo proposte radicali o rivoluzionarie. La sua storia politica affonda le radici nella socialdemocrazia francese e il suo istinto è chiaramente riformista e incrementalista. Tuttavia non è tanto questo il problema del libro, quanto l’illusione che sia possibile superare la diseguaglianza provocata dalla globalizzazione attraverso accordi a livello transnazionale.

In questo contesto Piketty continua a credere in un federalismo europeo anche se in modalità diversa rispetto a quella attuale, con la creazione di un’assemblea dell’eurozona, costituita da rappresentanti dei parlamenti nazionali. Sostiene che sia necessaria una maggiore integrazione delle politiche fiscali a livello transnazionale, al fine di evitare il “fiscal dumping”, ovvero il modo in cui paradisi fiscali come l’Olanda azzoppano la politica fiscale di altri paesi, rendendo così impossibile una politica redistributiva. Ma vista la deludente risposta a livello europeo rispetto alla crisi del coronavirus viene davvero da dubitare che questa risposta federalista sia davvero possibile.

Piuttosto, per mettere in atto le politiche redistributive che Piketty raccomanda, è necessario prima di tutto che gli stati-nazione approfittino della crisi attuale per riprendere in mano meccanismi di controllo e protezione, sanzionando i paesi che offrono rifugio fiscale alle loro compagnie, e garantendo protezione e sostegno dello stato ai loro settori strategici attraverso dazi, tariffi, sussidi, regolazione del commercio e della finanza internazionale, politica industriale e un ritorno a necessarie forme di pianificazione. Se davvero si vuole superare la trappola del nativismo sociale, bisogna urgentemente ridare potere di politica economica agli stati. Si è a lungo parlato della necessità di politiche transnazionali per combattere multinazionali e paradisi fiscali. Ma queste fino ad ora hanno prodotto scarsi risultati sul fronte delle politiche fiscali. Di fronte alla dimensione della crisi attuale, serve un crudo realismo, e invece di continuare a sperare in accordi transnazionali bisogna cominciare a organizzarsi sul terreno nazionale. Solo così si potrà cominciare a invertire la tendenza alla diseguaglianza documentata da Piketty.

[i] p. 755

[ii] p. 752

[iii] P. 766

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